la presenza postuma di Jeshuu durante la guerra giudaica. 66 – 73 d.C. – L’Annuncio del Nuovo Regno: Introduzione. 17 – 350

vorrei considerare come una introduzione a questo post quel che ho scritto qui: https://comma22corpus.wordpress.com/2022/09/02/la-storia-nascosta-dellincertezza-borforismi-64/

ho visto di recente un bel video nel quale Barbero demistifica in base ai documenti il mito ottocentesco della paura della fine del mondo nell’anno Mille: mi piacerebbe poter pensare di essere colui che riesce a compiere una operazione analoga per quel che riguarda l’invenzione della crocifissione di Gesù Cristo.

la storia del suo processo, della sua condanna a morte e della sua esecuzione è talmente assurda ed inverosimile in se stessa, anche lasciando da parte l’appendice ancora più fantasmagorica della resurrezione, che non dovrebbero neppure servire fonti storiche per relegarla tra le favole inventate dagli uomini per sottrarsi alla paura della morte, peraltro fortemente alimentata dalla religione stessa, nella nostra cultura.

ma possiamo privare la masse cristiane della loro principale rassicurazione psicologica? ed è perfino lecito chiedersi se è giusto farlo; quindi non c’è l’ombra di una possibilità di riuscire in questo tentativo.

le menti più spregiudicate riescono, tutto sommato, a rifiutare come leggendaria l’idea della resurrezione dalla morte, ma non sono certamente pronte a liberarsi anche dell’idea, meno inverosimile, della crocifissione, non rendendosi conto che si tratta soltanto della parte iniziale della stessa invenzione.

comunque la probabile identificazione di Jeshuu col profeta egiziano, del quale parla storicamente Giuseppe Flavio, riesce a fornirci un quadro relativamente plausibile di quello che può essere successo davvero.

e quindi proseguo con le mie considerazioni, pur sapendo che per molti risulterò soltanto blasfemo e forse persino un poco pazzo.

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ma ci potrebbe chiedere che motivo ho di continuare ad analizzare le due opere di Giuseppe Flavio dopo che mi sembra di avere trovato finalmente una precisa traccia dello Jeshuu storico in quello che lui chiama il profeta egiziano, mentre ne raccontano la vicenda svoltasi nel 52-53 d.C.

eppure è proprio in diversi passaggi ulteriori di questi due testi che troviamo la maggior parte delle informazioni che indirettamente arricchiscono il quadro di quello che possiamo sapere storicamente di lui, attraverso altri personaggio che ritengo possano essere ricollegati a lui; ma questo lo vedremo meglio in seguito.

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ma riassumiamo i termini della questione:

sulla vicenda di Jeshuu abbiamo sostanzialmente tre differenti ricostruzioni di base, tralasciando per il momento altre diverse di alcuni vangeli apocrifi, come il Vangelo di Maria Maddalena e il Vangelo di Pietro o un altro frammento anonimo sulla passione, che tuttavia sono troppo frammentari per lasciare riconoscere il loro impianto complessivo.

ma sappiamo che esistevano anche altre versioni completamente diverse della vita di Jeshuu, come quella che narrava che, sopravvissuto alla crocifissione, era vissuto ancora diversi anni con i suoi seguaci; e suo fratello gemello Giuda il Gemello, o Toma, Tommaso, in ebraico, lo definisce il vivente, e non il risorto, nella più antica stesura scritta dei suoi detti, che poi la chiesa costantiniana condannò alla distruzione, dichiarandola apocrifa.

e contro l’idea della resurrezione di Jeshuu polemizza apertamente un altro testo quasi altrettanto antico, anche se a noi pervenuto in un tardo rifacimento gnostico del terzo o quarto secolo, il cosiddetto Vangelo di Filippo, dove è contenuta questa affermazione, che fa parte certamente del nucleo più antico del testo: “Coloro che affermano: Il Signore è morto ed è risuscitato, sbagliano. Egli, infatti, prima risorse e [poi] morì.” (Vangelo di Filippo, 56, 10).

nessuna di queste versioni può essere considerata più attendibile delle altre, ma queste variazioni sul tema sono tuttavia utili perché ci fanno capire quanto varie fossero le leggende fiorite sulla sua figura e come la convergenza su uno schema narrativo unitario, che è quello dei tre vangeli sinottici, è soltanto il frutto di una drastica selezione operata in seguito, con l’eliminazione forzosa di ogni altra versione.

dunque, anche da questo punto di vista, è quasi nulla l’attendibilità storica di queste versioni dei fatti, oggi considerate invece come il necessario punto di partenza per ogni ricostruzione.

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iniziamo dunque dall’ultimo tipo di narrazione sulla vita e sulla fine di Jeshuu, in ordine cronologico inverso, cioè dal più recente: nasce col Vangelo secondo Marco, scritto certamente dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani, visto che ne parla, e presumibilmente verso la fine del I secolo, visto che è noto a Papia, che scrive qualche decennio dopo.

Marco colloca in un solo arco di tempo, che non data, tutta la vicenda di Gesù, dal battesimo ad opera di Giovanni ad una morte in croce al tempo di Pilato.

per la verità all’inizio non è chiaro il rapporto cronologico fra il battesimo ricevuto da Giovanni e l’inizio della sua predicazione; si dice soltanto che Gesù cominciò a predicare dopo che Giovanni fu messo in prigione, ma non si spiega quanto tempo il battesimo di Gesù avvenne la cattura di Giovanni.

tradizionalmente, però, si fa durare il tutto praticamente nell’arco di un anno.

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da questa cronologia prendeva chiaramente le distanze Papia, nella prima metà del secondo secolo, considerandola sbagliata: Eusebio di Cesarea nella sua Storia della chiesa, 3, 39, ne cita le parole esatte, dall’opera Cinque libri di spiegazione dei detti del Signore, e dice che Papia riferisce, a proposito del Vangelo secondo Marco, l’opinione del presbitero Giovanni, che definisce discepolo del Signore, anche se non pare nel senso che costui avesse avuto davvero una conoscenza personale diretta di Jeshuu, ma fu comunque il maestro e il punto di riferimento di Papia:

14. […]  Ora è necessario che noi, alle testimonianze sopracitate, facciamo seguire la tradizione che egli riferisce intorno a Marco, autore del Vangelo. Ecco le sue parole: 15. “Anche questo diceva il presbitero [Giovanni]: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo; poiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l’opportunità, senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d’una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò”. Questo fu raccontato da Papia intorno a Marco.

come si vede, Papia, che ritiene comunque questo vangelo scritto personalmente da Marco, rifiutava l’impianto cronologico di questo racconto, sulla base di una diversa tradizione, che gli pareva più attendibile: scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo – come interprete di Pietro, che non aveva l’intenzione di fare un’esposizione ordinatapoiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro.

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da Marco direttamente dipendono sia il nostro attuale Matteo sia Luca, che Papia non conosceva ancora; quindi la cronologia che riassume tutta l’azione pubblica di Jeshuu in un anno, dipende da queste due opere tarde e non risulta neppure chiaramente dal più antico dei vangeli sinottici, quello secondo Marco, di cui peraltro noi non possediamo la prima redazione, ma una già rielaborata in seguito.

è dunque una ricostruzione almeno di terza mano rispetto al primo strato, rappresentato dalle parole e dalle azioni reali di Jeshuu, e viene fatta attraverso le parole occasionali di un suo seguace, detto Pietro, come furono raccolte da un seguace di costui, Marco, dopo la morte del maestro.

ma probabilmente queste furono messe per iscritto a loro volta da una terza persona, dopo la morte di Marco, a differenza di quel che pensa Papia; e infine il testo venne rielaborato, cancellando ogni riferimento esplicito alla figura di Lazzaro, che oggi sappiamo era presente nella redazione più antica, dopo che ne è stata scoperta una parte cancellata in seguito: quindi rischiamo che la mano sia addirittura la quinta.

comunque il rifiuto di questa cronologia, operato già da Papia, ci costringe quindi a pensare che è falsa, anche se è quella adottata ufficialmente dalla Chiesa cattolica.

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il secondo schema di ricostruzione, risalendo cronologicamente all’indietro nella tradizione cristiana, e quindi la più antica, è quella che ritroviamo nello strato originario del Vangelo secondo Giovanni:

qui l’azione di Jeshuu è presentata come diluita in un arco non precisato di anni; l’idea che questi siano soltanto tre nasce dalla volontà di avvicinare il più possibile il racconto di Giovanni a quello degli altri tre vangeli riconosciuti, ma non c’è nessun elemento interno al testo stringente in questo senso, anzi, come vedremo, c’è piuttosto un sospetto contrario, che il periodo fosse molto più lungo.

a differenza di Marco, che fa iniziare l’attività pubblica di Gesù dopo l’imprigionamento di Giovanni il Battezzatore, qui Gesù comincia a battezzare prima che Giovanni sia incarcerato, anzi entra quasi in competizione con lui, ma da un passaggio successivo, in cui si parla di Giovanni al passato, risulta che era attivo anche dopo la sua morte.

anche in questa versione della vita di Jeshuu, questi finisce crocifisso dopo essere stato arrestato da Pilato.

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vi è infine una testimonianza storica e laica, che presenta in modo radicalmente differente Jeshuu, senza peraltro nominarlo, quella di Giuseppe Flavio, se si accetta la proposta di identificazione mia ed oggi anche della Einhorn.

si tratta, secondo lui, di un agitatore religioso, esponente di un’ala profetica dello zelotismo, rientrato dall’Egitto, e vissuto fino al tempo del procuratore Felice, e non sotto Pilato vent’anni prima.

ma in questa versione Jeshuu non viene affatto crocifisso, ma di lui si dice soltanto che scomparve durante lo scontro con le truppe romane mandate a disperdere i suoi seguaci.

dunque la cattura, il processo e la crocifissione stessa, con susseguente sepoltura e resurrezione, potrebbero addirittura essere una invenzione dei suoi seguaci, per spiegarne la misteriosa scomparsa.

ma è difficile arrivare a delle certezze: la notizia che dà Giuseppe Flavio potrebbe essere la versione ufficiale di comodo dei romani della liquidazione del falso profeta, volta a screditarlo definitivamente, e l’altra, della crocifissione e successiva resurrezione, essere invece la versione altrettanto falsa e politica, costruita dai suoi seguaci per mantenerne intatto il prestigio, anzi dargliene uno immenso.

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ritengo che sia sicuramente falsa la terza versione complessiva della vita di Jeshuu, ora considerandole in ordine cronologico diretto, cioè quella dei vangeli sinottici, iniziata dal Vangelo secondo Marco, ma mi è difficile decidere se ve ne sia una sicuramente giusta dal punto di vista storico, fra la versione dell’Annuncio del Nuovo Regno, sopravvissuto in qualche modo nel Vangelo secondo Giovanni, e quella di Giuseppe Flavio,

il fatto che Giuseppe Flavio dà meno spazio all’irrazionale e al miracolistico, anche se non lo esclude del tutto, non basta ad esimerlo dal sospetto della tendenziosità; ed è difficile già trovare soltanto un punto di equilibrio fra la sua versione e quel che può esservi di vero nel racconto dei suoi seguaci sopravvissuto nel Vangelo secondo Giovanni.

la mia conclusione è che la questione è destinata a rimanere irrimediabilmente aperta, ma ogni spiegazione razionale dell’accaduto sarà sempre meno improbabile dei racconti favolosi e miracolistici imbastiti dai cristiani con successive stratificazioni, decennio dopo decennio.

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ma conclusa questa premessa, ora esaminiamo quali altre notizie possiamo ricavare da Giuseppe Flavio sullo Jeshuu storico, cioè probabilmente su quello che lui chiama spregiativamente il profeta egiziano, scegliendo i passi più interessanti da questo punto di vista, ma abbandonando la narrazione continuata o quasi di Giuseppe Flavio, che abbiamo seguito finora per ricostruire il clima storico in cui era avvenuta la formazione e l’azione di Jeshuu.

la presenza di alcune di queste citazioni e il loro riferimento a Jeshuu non saranno immediatamente chiare, ma la motivazione della scelta sarà evidente nella discussione successiva.

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la prima citazione riguarda la conquista della fortezza di Masada, all’inizio della rivolta contro i romani, ad opera di un giovane rivoluzionario di nome Eleazar, cioè Lazzaro, che è addirittura il figlio del sommo sacerdote Anania: questo ultimo nome nella tradizione evangelica viene trascritto come Anna.

è da notare che vi furono due diversi sommi sacerdoti di nome Anania o Anna, Hananjah in ebraico:

uno ebbe la carica dal 6 al 15 d.C., fu deposto dal prefetto romano Valerio Grato, ma rimase comunque influente all’interno del sinedrio per molti altri anni, in particolare quando la carica passò a suo genero Caifa, che fu uno dei suoi successori dal 18 fino al 36 d.C., e dunque viveva al tempo di Pilato, che fu prefetto pure fino al 36 d.C.; e altri suoi cinque figli ricoprirono la carica di sommo sacerdote, fino allo scoppio della guerra giudaica: Si dice che il più vecchio Anna sia stato estremamente fortunato. Infatti cinque suoi figli, dopo che egli stesso precedentemente avesse goduto l’ufficio per un periodo molto lungo, sono stati sommi sacerdoti di Dio – una tal cosa non era mai accaduta a qualsiasi altro dei nostri sommi sacerdoti. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche 20, 9.1.

un altro Anania fu invece figlio di Nedebeo ed è chiamato Ananos da Giuseppe Flavio: fu creato sommo sacerdote verso il 47 d. C., fu inviato prigioniero a Roma a rispondere di diversi reati al tribunale imperiale verso il 52 d.C., cioè esattamente al tempo dell’azione del profeta egiziano; prosciolto e tornato in Palestina, fu ucciso nei primi tumulti della grande rivoluzione giudaica, e vedremo qui sotto da chi.

La Guerra Giudaica Libro II

[66 d.C.] 408 – 17, 2. Allora alcuni dei rivoluzionari più attivi, per provocare lo scoppio della guerra, si radunarono e piombarono sulla fortezza di Masada, e avendola presa con uno stratagemma uccisero la guarnigione romana e la sostituirono con una loro.

409 Contemporaneamente nel tempio di Gerusalemme avvenne che Eleazar, figlio del sommo sacerdote Anania, un giovane assai facinoroso, che allora aveva l’ufficio di capitano, persuase gli addetti alle cerimonie di culto a non accettare un dono o un sacrificio da parte di uno straniero. Questo però significava dare l’avvio alla guerra contro i romani, poiché così essi provocavano l’abolizione del sacrificio celebrato in favore dei romani e di Cesare. 410 E, sebbene i sommi sacerdoti e i maggiorenti esortassero a non tralasciare il consueto rito per i dominatori, quelli non cedettero sia perché confidavano molto nel loro numero, essendo appoggiati dai più attivi dei rivoluzionari, sia specialmente perché pendevano dalle labbra di Eleazar. 411 – 17, 3. I maggiorenti e i sommi sacerdoti si riunirono con i notabili dei Farisei per discutere sulla situazione politica generale, che si presentava ormai di un’estrema pericolosità; e avendo deliberato di tentare un’azione di recupero verso i rivoluzionari raccolsero il popolo dinanzi alla porta di bronzo, che si apriva nel tempio interno rivolta ad oriente. 412 E dopo averli anzitutto rimproverati a lungo per la temeraria intenzione di ribellarsi e di attirare sulla patria una guerra tanto rovinosa, mostrarono l’assurdità del pretesto cui s’erano appigliati ricordando che i loro antenati avevano adornato il tempio per buona parte con le offerte degli stranieri, accettando sempre i doni delle nazioni estere, 413 e non soltanto non avevano mai impedito che si celebrassero sacrifici per chiunque, il che sarebbe stato il colmo dell’empietà, ma avevano anche collocato intorno al tempio i doni votivi, che ancora si potevano vedere essendo ivi rimasti per tanto tempo. 414 Ora essi, volendo provocare le armi dei romani e attirarsi da quelli una guerra, introducevano nel culto una regola inaudita, e oltre che al pericolo esponevano la città all’accusa di empietà dal momento che soltanto presso i giudei uno straniero non avrebbe più potuto né offrire sacrifici, né compiere atti di adorazione. 415 Se alcuno avesse voluto introdurre una simile restrizione a carico di un qualunque privato, loro certo se ne sarebbero sdegnati come di un atto inumano, mentre poi non si preoccupavano di veder messi al bando i romani e Cesare. 416 Era perciò da temere che, avendo aboliti i sacrifici per costoro, venissero impediti dal compiere i sacrifici anche per loro stessi, e che la città fosse messa al bando dell’impero, se non si affrettavano a rinsavire restaurando i sacrifici e riparando il torto prima che agli offesi ne arrivasse la notizia. 417 – 17, 4. Durante questo discorso essi fecero intervenire i sacerdoti esperti dei riti tradizionali, i quali dichiararono che gli antenati usavano accettare i sacrifici da parte degli stranieri. Ma nessuno dei rivoluzionari si lasciò convincere, e nemmeno i ministri di culto si dichiararono d’accordo, creando così l’occasione per la guerra. 418 I maggiorenti, vedendo che ormai non potevano più soffocare la ribellione e che loro sarebbero poi stati i primi a subirne le pericolose conseguenze da parte dei romani, si preoccuparono di declinare la loro responsabilità e mandarono ambasciatori sia a Floro, capeggiati da Simone figlio di Anania, sia ad [Erode] Agrippa, tra cui primeggiavano Saul, Antipa e Costobar, legati al re da vincoli di parentela. 419 Ad entrambi rivolsero un pressante appello perché venissero in città con forze militari e mettessero fine alla ribellione prima che esplodesse irrefrenabile. 420 Per Floro si trattò di una splendida notizia, ed essendo intenzionato a far scoppiare la guerra lasciò gli ambasciatori senza risposta; 421 [Erode] Agrippa, invece, che si preoccupava ugualmente dei ribelli e di coloro contro cui si preparava la guerra, che voleva conservare ai romani la fedeltà dei giudei e ai giudei il tempio e la città, che ben sapeva come nemmeno lui avrebbe avuto nulla da guadagnare dai disordini, mandò in aiuto del popolo 2mila cavalieri dell’Alluranitide, della Batanea e della Traconitide agli ordini di Dario, quale comandante della cavalleria, e di Filippo figlio di Iacimo, quale comandante in capo. 422 – 17, 5. Incoraggiati dal loro arrivo i maggiorenti, con i sommi sacerdoti e tutta quella parte del popolo che voleva la pace, occuparono la parte alta della città; i rivoluzionari occupavano invece la parte bassa e il tempio. 423 Erano incessantemente in azione con pietre e fionde, e fra le due zone era un continuo lancio di proiettili; più d’una volta uscirono ad affrontarsi in gruppi e si verificarono degli scontri nei quali i rivoluzionari risultavano superiori per l’audacia e i soldati regi per l’addestramento. 424 Costoro si prefiggevano soprattutto d’impadronirsi del tempio e di scacciarne i profanatori del santuario, mentre i rivoluzionari di Eleazar si battevano per aggiungere anche la città alta alla zona che già controllavano. Per sette giorni vi fu grande strage da ambedue le parti, senza che nessuna abbandonasse la zona che occupava. 425 – 17, 6. Il giorno dopo ricorreva la festa delle Xiloforie, nella quale secondo il rito ognuno portava legna all’altare, sì che non mancasse mai alimento al fuoco che deve rimanere sempre acceso. Quelli che occupavano il tempio impedirono ai loro avversari di compiere il rito, e invece accolsero nelle loro file molti dei sicari infiltratisi fra il popolino – sicari venivano chiamati dei briganti che portavano pugnali nascosti nel seno, – e così poterono lanciare con più audacia i loro attacchi. 426 I soldati regi, inferiori per numero e per ardimento, furono costretti a evacuare la città alta. Gli avversari vi si precipitarono e appiccarono l’incendio alla casa del sommo sacerdote Anania e alla reggia di Agrippa e Berenice; quindi portarono il fuoco agli archivi, 427 allo scopo di distruggere i contratti di prestito e d’impedire la riscossione dei debiti, sì da cattivarsi la massa dei debitori e da mettere impunemente i poveri contro i ricchi. Essendo fuggiti gli addetti alla conservatoria degli atti, vi appiccarono l’incendio. 428 Dopo aver così distrutto col fuoco i gangli vitali della città, mossero contro i nemici, e allora alcuni dei maggiorenti e dei sommi sacerdoti si nascosero calandosi nelle gallerie sotterranee, 429 mentre altri insieme con i soldati regi si rifugiarono nel palazzo situato più in alto, affrettandosi a sbarrarne le porte; con questi ultimi erano il sommo sacerdote Anania, suo fratello Ezechia e quelli che erano andati come ambasciatori ad Agrippa. Per il momento i rivoluzionari, paghi della vittoria e degli incendi, si fermarono. 430 – 17, 7. Ma il giorno dopo, era il 15 del mese di Loos, andarono all’assalto dell’Antonia e dopo due giorni di assedio presero e uccisero i soldati di guarnigione, quindi incendiarono la fortezza. 431 Si riversarono poi contro il palazzo in cui s’erano rifugiati i regi, e ripartitisi in quattro gruppi, tentavano di abbatterne le mura. Nessuno di quelli che stavano dentro osava fare una sortita a causa del gran numero degli avversari, ma distribuitisi lungo i parapetti e le torri bersagliavano gli assalitori, e molti dei briganti caddero sotto le mura. 432 La lotta non aveva tregua né di notte, né di giorno, poiché i rivoluzionari speravano che gli assediati si sarebbero arresi per mancanza di viveri e questi speravano di stancare gli assedianti.

433 – 17, 8. Fu allora che un certo Menahem, figlio di Giuda detto il Galileo, un dottore assai pericoloso che già ai tempi di Quirinio aveva rimproverato ai giudei di riconoscere la signoria dei romani quando già avevano Dio come Signore, messosi alla testa di alcuni fidi raggiunse Masada, 434 dove aprì a forza l’arsenale del re Erode e, avendo armato oltre ai paesani altri briganti, fece di questi la sua guardia del corpo; quindi ritornò a Gerusalemme e, assunto il comando della ribellione, prese a dirigere l’assedio. 435 Non disponevano però di macchine, e scalzare il muro all’aperto non era possibile perché venivano colpiti dall’alto; allora scavarono da lontano una galleria fin sotto una delle torri che rimase poggiata su un’armatura di legno, poi diedero fuoco a questa e fuggirono. 436 Bruciatisi i puntelli, la torre all’improvviso rovinò, ma all’interno apparve un altro muro che intanto era stato innalzato; infatti gli assediati, avendo indovinato lo stratagemma, o forse anche sentendo che la torre si muoveva per i lavori di scavo, si erano muniti di un secondo baluardo. 437 Questa vista improvvisa provocò negli attaccanti un grande abbattimento, anche perché credevano di avere ormai la vittoria in pugno; contemporaneamente quelli di dentro mandarono a chiedere a Menahem e ai capi della rivolta di poter uscire sotto determinate condizioni, ed essendo stata accordata tale concessione ai soli soldati regi e ai paesani, costoro uscirono. 438 I romani, rimasti soli, furono presi dallo scoraggiamento; infatti non potevano aver ragione di una moltitudine così numerosa, e poi consideravano vergognoso lo scendere a patti, oltre a non fidarsi di eventuali concessioni. 439 Allora essi abbandonarono il loro campo, che non era più difendibile, e si rifugiarono nelle torri regie, che si chiamavano Ippico, Fasael e Mariamne. 440 Gli uomini di Menahem fecero irruzione nei luoghi che i romani stavano evacuando, presero e uccisero quanti non fecero in tempo a fuggire e, impadronitisi dei materiali, incendiarono l’accampamento. Ciò avvenne il sei del mese di Gorpieo.

441 – 17, 9. Il giorno dopo fu scoperto il sommo sacerdote Anania che si nascondeva presso il canale della reggia, e insieme col fratello Ezechia fu ucciso dai briganti; intanto i rivoluzionari stringevano d’assedio le torri badando che nessun soldato prendesse la fuga. 442 La distruzione delle opere fortificate e la morte del sommo sacerdote Anania avevano esaltato Menahem fino alla ferocia, ed egli, ritenendo di non aver rivali come capo, si comportava da tiranno insopportabile. 443 Ma contro di lui si levarono i partigiani di Eleazar, ripetendosi l’un l’altro che non era il caso di ribellarsi ai romani spinti dal desiderio di libertà per poi sacrificarla a un boia paesano, e sopportare un padrone che, se anche non avesse fatto nulla di male, era pur sempre inferiore a loro; e ammesso pure che ci dovesse essere uno a capo del governo, questo compito spettava a chiunque altro più che a lui; così si misero d’accordo e lo assalirono nel tempio; 444 vi si era infatti recato a pregare in gran pompa, ornato della veste regia e avendo i suoi più fanatici seguaci come guardia del corpo. 445 Come gli uomini di Eleazar si furono scagliati su di lui, anche il resto del popolo tutto infuriato afferrò delle pietre e si diede a colpire il dottore, ritenendo che, levatolo di mezzo, sarebbe interamente cessata la rivolta; 446 gli uomini di Menahem fecero per un po’ resistenza, ma quando videro che tutta la folla era contro di loro, fuggirono dove ognuno poté, e allora seguì una strage di quelli che venivano presi e una caccia a quelli che si nascondevano. 447 Pochi trovarono scampo rifugiandosi nascostamente a Masada, e fra questi Eleazar figlio di Giairo, legato a Menahem da vincoli di parentela, che in seguito fu il capo della resistenza di Masada. 448 Quanto a Menahem, che era scappato nel quartiere detto Ofel e vi si era vigliaccamente nascosto, fu preso, tirato fuori e dopo molti supplizi ucciso, e così pure i suoi luogotenenti e Absalom, il principale ministro della sua tirannide.

449 – 17, 10. Il popolo, come ho detto, collaborò a quest’azione sperando in una risoluzione della crisi, mentre quelli avevano tolto di mezzo Menahem non per mettere fine alla guerra, ma per poterla condurre con maggior libertà di movimenti. 450 E nonostante il popolo insistesse presso gli armati perché abbandonassero l’assedio, quelli lo continuarono con più ardore fino a che gli uomini di Metilio, il comandante dei romani, non potendo più resistere, chiesero ai partigiani di Eleazar di aver salva la vita impegnandosi a dare in cambio le armi e tutto ciò che avevano. 451 Quelli, approfittando anche di una tale richiesta, inviarono da loro per stringere l’accordo Gorion figlio di Nicomede, Anania figlio di Sadoc e Giuda figlio di Gionata. Giurati i patti, Metilio fece uscire i soldati. 452 Fino a che quelli rimasero armati, nessuno dei rivoluzionari osò toccarli né svelò l’insidia; ma quando, secondo gli accordi, tutti ebbero lasciato gli scudi e le spade, e senza alcun sospetto si ritiravano, 453 allora i partigiani di Eleazar si gettarono su di loro, li circondarono e li massacrarono mentre quelli, senza levare né un dito, né una supplica, si limitavano a invocare ad alte grida i patti e i giuramenti. 454 Così perirono barbaramente uccisi tutti tranne Metilio, che fu l’unico ad esser risparmiato perché li aveva supplicati e aveva promesso di farsi giudeo fino a lasciarsi circoncidere. Per i romani lo smacco fu di beve entità, poiché di un esercito innumerevole avevano perduto solo pochi uomini; ma ai giudei l’episodio apparve come il preludio alla loro catastrofe. 455 Ed essi, vedendo che ormai le cause della guerra erano inevitabili e la città contaminata da tale contagio, che era naturale aspettarsene un castigo divino, anche se si sfuggiva alla vendetta dei romani, piombarono in un pubblico lutto e tutta la città fu piena di costernazione, e ognuno dei moderati era sbigottito al pensiero che avrebbe dovuto scontar lui le colpe dei ribelli. 456 L’eccidio infatti era stato consumato di sabato, giorno in cui per ragioni di culto i giudei si astengono dal compiere anche le azioni più innocenti.

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in quest’altro passo successivo Giuseppe Flavio esprime un giudizio storico complessivo sulla figura di Anano, o Anania, e collega la sua uccisione a quella di Zaccaria figlio di Baris, nel tempio di Gerusalemme; in seguito sarà ben chiaro perché ritengo questo passo di Giuseppe Flavio molto importante per chiarire alcuni passaggi di affermazioni attribuite a Jeshuu.

La Guerra Giudaica Libro IV

318 Non credo di sbagliare dicendo che la morte di Anano segnò l’inizio della distruzione della città, e che le sue mura caddero e lo stato dei giudei andò in rovina a cominciare dal giorno in cui essi videro scannato in mezzo alla città il loro sommo sacerdote e il capo della loro salvezza. 319 Era stato un uomo venerando sotto ogni rispetto e di assoluta integrità, che pur dall’alto della sua nobiltà, del suo rango e della sua onorifica posizione si era sempre compiaciuto di trattare alla pari anche le persone più umili, un uomo straordinariamente attaccato alla libertà e alla democrazia, 320 che all’interesse privato aveva sempre anteposto il bene comune. Quello di salvare la pace fu il primo dei suoi pensieri, perché sapeva che non sarebbe stato possibile battere i romani, ma, costretto dalla necessità, si preparò anche alla guerra in modo che, se i giudei non fossero riusciti a raggiungere un accordo, potessero almeno scendere in campo in condizioni favorevoli. 321 Insomma, se Anano fosse sopravvissuto, certamente i giudei sarebbero venuti a un’intesa, perché egli era un abile parlatore, capace di convincere il popolo, e già aveva preso il sopravvento sugli avversari; altrimenti, in caso di guerra, avrebbero dato molto filo da torcere ai romani sotto un simile comandante. 322 A lui si affiancava degnamente Gesù, inferiore rispetto ad Anano, ma superiore agli altri. 323 Debbo ritenere che Dio, avendo condannato alla distruzione la città contaminata e volendo purificare col fuoco i luoghi santi, eliminò coloro che vi erano attaccati con tanto amore. 324 E quelli che poco prima, avvolti nei sacri paramenti, avevano presieduto a cerimonie di culto di portata universale ed erano stati oggetto di venerazione da gente venuta nella città da ogni paese, era dato ora di vederli gettati ignudi in pasto ai cani e alle fiere. 325 Su uomini siffatti io credo che la stessa virtù abbia lacrimato, lamentando di esser stata così calpestata dalla malvagità: tale fu la fine di Anano e di Gesù. 326 – 5, 3. Dopo la loro uccisione gli Zeloti e la massa degli Idumei si avventarono sul popolo facendone macello come di un branco di bestie immonde. 327 La gente comune veniva massacrata sul posto appena era presa, mentre i giovani della nobiltà dopo la cattura li incatenarono e li gettarono in prigione, rinviandone l’uccisione nella speranza che qualcuno passasse dalla loro parte. 328 Ma nessuno si lasciò persuadere, perché tutti preferirono morire anziché schierarsi insieme con quei criminali contro la patria. 329 Terribili furono i supplizi cui vennero sottoposti dopo il rifiuto; furono flagellati e torturati, e solo quando il corpo non era più in grado di resistere ai tormenti, a stento concedevano loro il colpo di grazia. 330 Quelli presi di giorno venivano massacrati di notte, e i loro cadaveri erano trasportati fuori e buttati via per far posto ad altri prigionieri. 331 Tale fu il terrore del popolo, che nessuno osava né lacrimare apertamente un congiunto ucciso né dargli sepoltura, ma piangevano nascostamente dopo essersi rinchiusi in casa, e gemevano badando a non farsi sentire dai nemici, 332 altrimenti chi piangeva avrebbe immediatamente subito la stessa sorte del compianto. Sui cadaveri, durante la notte, raccoglievano e gettavano un pugno di terra, e non mancò qualche coraggioso che osò farlo anche in pieno giorno. 333 Dodicimila furono i giovani della nobiltà che perirono in questo modo.
334 – 5, 4. Nauseati ormai dai massacri indiscriminati, quelli organizzarono la farsa di un regolare processo. 335 Si erano prefissi di eliminare uno dei personaggi più in vista, Zaccaria figlio di Baris, contro il quale li avevano inveleniti la sua grande avversione al male e l’amore per la libertà; inoltre era anche ricco, sì che non solo speravano di appropriarsi dei suoi beni, ma anche di liberarsi di un avversario potente e temibile. 336 Pertanto intimarono a settanta dei cittadini più ragguardevoli di radunarsi nel tempio, assegnarono a questi come in una rappresentazione teatrale la funzione di giudici senza alcun effettivo potere, e dinanzi a loro accusarono Zaccaria di voler consegnare la patria ai romani e di aver organizzato il tradimento mettendosi in relazione con Vespasiano. 337 Le accuse non si fondavano né su una prova né su un indizio, ma essi dichiararono di esserne fermamente convinti e pretendevano che ciò bastasse a ritenerle vere. 338 Zaccaria, visto che non gli restava alcuna speranza di salvezza, giacché era stato convocato non in un tribunale ma in una prigione, non si lasciò chiudere la bocca dalla disperazione, ma si levò a sottolineare la balordaggine delle accuse e in breve demolì gli argomenti addotti contro di lui. 339 Poi, ritorcendo il discorso contro gli accusatori, enumerò tutti i loro misfatti e si soffermò a deplorare la catastrofica situazione che n’era derivata. 340 Gli Zeloti andarono sulle furie e a stento si trattennero dallo sguainare le spade perché volevano spingere fin in fondo la celebrazione del processo per gioco e, per di più, mettere alla prova i giudici, per vedere se avrebbero rispettato la giustizia anche con pericolo della loro vita. 341 I settanta all’unanimità votarono per l’assoluzione dell’imputato, preferendo affrontare la morte insieme con lui anziché accollarsi la responsabilità della sua condanna. 342 Di fronte alla sentenza di assoluzione gli Zeloti scoppiarono in schiamazzi, e mentre tutti inveivano contro i giudici per non aver capito che si era trattato solo di una burla, 343 due dei più facinorosi si avventarono su Zaccaria, lo uccisero in mezzo al tempio e ne schernirono il cadavere dicendo: “Eccoti anche il nostro voto per essere più sicuro di andartene”; poi dall’alto del tempio lo gettarono nel sottostante burrone. 344 I giudici li percossero ignominiosamente col rovescio delle spade scacciandoli dal tempio, e li risparmiarono soltanto perché, ritornandosene alle loro case, facessero sapere a tutti chi erano i padroni.

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in questi altri passi successivi, scelti fra i molti sull’argomento, invece lo storico presenta Giovanni di Giscala, un altro leader rivoluzionario, nemico personale di Giuseppe, che è il Flavio (che non aveva ancora assunto questo soprannome, evidentemente) e qui parla di se stesso in terza persona.

La Guerra Giudaica Libro II

[…] 568 Giovanni figlio di Anania fu eletto capo per le province di Gofna e Acrabetta, e Giuseppe figlio di Mattia per le due Galilee; alla giurisdizione di quest’ultimo fu aggiunto anche il territorio di Gamala, la città più forte in quella regione. […] 585 – 21, 1. Mentre Giuseppe così organizzava la difesa in Galilea, gli si levò contro un intrigante di Giscala di nome Giovanni, figlio di Levi, il più farabutto e il più astuto fra tutti quelli famosi per simili pessime qualità. Povero dapprincipio, e per lungo tempo impedito dal mal fare proprio dalla sua povertà, pronto a mentire, 586 abile nel far credere alle sue menzogne, egli considerava l’inganno una virtù e se ne serviva anche contro le persone più care, 587 e mentre fingeva mitezza era prontissimo a uccidere anche solo per la speranza di un guadagno. Sempre bramoso di grandezza, ma capace di realizzare i suoi progetti soltanto con piccoli colpi perché era un bandito solitario, più tardi trovò anche compagnia per il suo vivere criminoso, piccola dapprima, poi sempre più numerosa. 588 Aveva cura di non accogliere nessuno che potesse facilmente esser preso, ma sceglieva gli individui che si distinguevano per prestanza, coraggio ed esperienza di guerre, finché radunò una banda di quattrocento uomini, che per lo più si erano dati alla macchia provenendo dalla regione di Tiro e dai villaggi vicini. 589 Alla loro testa saccheggiò tutta la Galilea e vessò le masse che erano già preoccupate per la guerra imminente. 590 – 21, 2. Ormai egli aspirava a far da comandante e mirava a cose più grandi, ma gli era d’impedimento la mancanza di mezzi. Vedendo che Giuseppe lo apprezzava per la sua energia, dapprima lo persuase ad affidate a lui l’incombenza di costruire il muro intorno alla sua città natale, e in quest’occasione fece grossi profitti a spese dei ricchi contribuenti; 591 più tardi ideò un piano truffaldino: al fine di evitare a tutti i giudei abitanti nella Siria di usare olio non prodotto dai loro connazionali, chiese e ottenne di poterglielo fornire al confine. 592 Con una moneta di Tiro del valore di quattro dramme attiche egli comprava quattro anfore d’olio e ne rivendeva allo stesso prezzo mezza anfora, e poiché la Galilea è grande produttrice d’olio, e per di più quella era stata un’annata buona, poiché egli era il solo a vendere e ne vendeva molto perché erano molti a richiederlo, raccolse un’immensa somma di denaro, che ben presto adoperò contro colui che gli aveva permesso di realizzate l’affare. 593 Prevedendo che, se avesse tolto di mezzo Giuseppe, sarebbe diventato lui il comandante in capo della Galilea, ordinò alle sue bande di briganti di intensificare i loro colpi in modo che, moltiplicandosi i disordini nel paese, egli potesse o eliminare in qualche agguato il capo accorso a ristabilire la situazione, oppure comprometterlo agli occhi dei paesani, se non fosse intervenuto contro i briganti. 594 Inoltre da gran tempo andava dicendo che Giuseppe avrebbe tradito consegnando la regione ai romani, e architettava molti altri piani analoghi per rovinarlo.

595 – 21, 3. In quel tempo alcuni giovani del villaggio di Dabarittha, che facevano parte del corpo che stava a guardia della grande pianura, presero in un agguato Tolemeo, il procuratore di [Erode] Agrippa e di Berenice, e lo spogliarono di tutto il bagaglio che trasportava, fra cui erano non poche vesti ricchissime, molte coppe d’argento e 600 pezzi d’oro. 596 Non potendo godersi di nascosto tutto il bottino, lo portarono a Tarichee a Giuseppe. 597 Questi, rimproveratili per la violenza commessa a danno dei funzionari regi, depositò ciò che avevano portato presso Anneo, il personaggio più eminente di Tarichee, con l’intenzione di restituirlo ai proprietari alla prima occasione. Ma questa decisione lo espose a un gravissimo pericolo. 598 Infatti gli autori del colpo, sia perché erano infuriati per non aver ricevuto nemmeno una piccola parte di quanto avevano portato, sia perché indovinavano l’intenzione di Giuseppe, quella di fare un presente al re col frutto delle loro fatiche, di notte andarono in giro per i villaggi dipingendo a tutti Giuseppe come un traditore; misero in subbuglio anche le città vicine, sì che sul far del giorno 100mila uomini in armi accorsero contro di lui. 599 Adunata nell’ippodromo di Tarichee, la folla lanciava furiosi schiamazzi al suo indirizzo gridando di lapidarlo, mentre altri gridavano di bruciar vivo il traditore. A istigare la massa erano Giovanni e un certo Gesù, figlio di Saffia, che allora reggeva il governo di Tiberiade. 600 Gli amici e le guardie del corpo di Giuseppe, atterriti per l’impeto della folla, fuggirono tutti tranne quattro, mentre egli, che ancora dormiva, si svegliò quando stavano appiccando il fuoco alla casa, 601 e sebbene i quattro che erano rimasti lo spingessero a fuggire, lui, invece, senza lasciarsi turbare né dalla solitudine che vedeva intorno a sé, né dalla gran massa degli assalitori, venne fuori con le vesti stracciate, il capo cosparso di cenere, le mani strette sul dorso e la spada appesa al collo. 602 A tale vista quelli che avevano familiarità con lui, e specialmente i Taricheesi, furono presi da compassione, ma quelli del contado e quelli delle zone vicine, che lo ritenevano un furfante, presero a inveire e a esigere che tirasse subito fuori il denaro comune e confessasse gli accordi del tradimento; 603 infatti dal suo atteggiamento ritenevano che egli non avrebbe negato nessuna delle cose sospettate, ma che aveva fatto ricorso a quella messinscena compassionevole proprio per ottenere il perdono. 604 Invece per lui quell’apparizione in gramaglie era la prima parte di uno stratagemma; nell’intento di metter l’uno contro l’altro i suoi accusatori, si dichiarò pronto a rendere una piena confessione su ciò che gli addebitavano, e quando gli fu concesso di parlare disse: 605 “Questi tesori io non mi proponevo né d’inviarli ad Agrippa, né di tenerli per me; infatti mai io considererei mio amico chi è vostro nemico, né stimerei un guadagno ciò che arreca danno alla collettività. 606 Ma, o Taricheesi, vedendo che la vostra città ha proprio bisogno di essere fortificata e manca del denaro per costruire un muro, e d’altro canto, temendo che il popolo di Tiberiade e le altre città avessero messo gli occhi sui denari catturati, io decisi di metterli tranquillamente da parte per costruire il muro intorno alla vostra città. 607 Se non siete d’accordo, tirerò fuori ciò che mi fu consegnato e ve lo lascerò prendere, mentre se la mia decisione fu nel vostro interesse, non dovete punire il vostro benefattore”. 608 – 21, 4. A queste parole i Taricheesi lo acclamarono, mentre quelli di Tiberiade e tutti gli altri lo ricoprivano d’insulti e di minacce; poi, lasciato da parte Giuseppe, vennero a diverbio tra loro. Giuseppe, che ormai si sentiva rincuorato per i fautori che s’era guadagnati, poiché circa 40mila erano i Taricheesi, si rivolse di nuovo a tutta la folla con un discorso dal tono meno dimesso. 609 Dopo aver lungamente rimproverato il loro fare precipitoso, disse che con i denari disponibili si proponeva di fortificare Tarichee, ma che poi avrebbe ugualmente provveduto a munire le altre città; i mezzi non sarebbero mancati, se loro fossero stati d’accordo contro chi bisognava procurarseli, e non se la fossero presa con chi li procurava. 610 – 21, 5. Allora quasi tutta la folla, delusa, si ritirò sebbene ancora in preda alla rabbia, ma duemila persone con le armi in pugno si gettarono contro Giuseppe, ed essendosi questi affrettato a raggiungere la casa gli si assieparono intorno con grida minacciose. 611 Contro costoro Giuseppe fece ricorso a un nuovo stratagemma; infatti salito sul tetto, e fatto un cenno con la destra perché smettessero di urlare, disse di non sapere che cosa volevano; infatti per la confusione delle grida non riusciva a sentire; era pronto a fare ciò che gli avessero comandato purché mandassero dentro qualcuno a parlare tranquillamente. 612 Udito ciò, i maggiorenti e i magistrati entrarono. Giuseppe, trascinatili nella parte più interna della casa e chiusa la porta, li fece fustigare fino a mettere a nudo le visceri; intanto la folla era rimasta lì intorno, credendo che dentro quelli si dilungassero nelle trattative. 613 All’improvviso Giuseppe spalancò la porta e buttò fuori quegli uomini tutti coperti di sangue, provocando tanto sbigottimento negli avversari, che essi gettarono le armi e fuggirono.

614 – 21, 6. Questi fatti accrebbero l’odio di Giovanni, che ordì una seconda macchinazione ai danni di Giuseppe. Fingendo una malattia, pregò per lettera Giuseppe di concedergli di potersi curare con le acque termali di Tiberiade. 615 Giuseppe, che non ancora sospettava di avere in lui un insidiatore, scrisse ai suoi luogotenenti nella città di offrire a Giovanni ospitalità e di fornirlo del necessario. Due giorni dopo aver goduto di tale trattamento, Giovanni prese a realizzare l’intento del suo viaggio e, corrompendo quelli di Tiberiade chi con ingannevoli discorsi chi con denaro, li istigava a ribellarsi a Giuseppe. 616 Venuto a sapere la cosa, Silas, cui Giuseppe aveva affidato la sorveglianza sulla città, gli scrisse immediatamente per informarlo della trama. Giuseppe, appena ricevuta la lettera, si mise in viaggio e dopo una notte di rapido cammino arrivò all’alba a Tiberiade. 617 Tutta la folla gli andò incontro mentre Giovanni, sebbene sospettasse che quella visita fosse contro di lui, fingendosi malato mandò uno dei suoi conoscenti a dire che, trovandosi a letto, era impedito dal venire a rendere omaggio. 618 Quando poi Giuseppe raccolse nello stadio il popolo di Tiberiade e si preparava a parlare delle informazioni che aveva ricevute, Giovanni mandò nascostamente degli uomini armati a ucciderlo. 619 Nel momento in cui questi sguainavano le spade, il popolo se ne accorse e levò un grido; al clamore Giuseppe si voltò e, vistosi già il ferro alla gola, saltò giù sulla spiaggia – per parlare al popolo si era messo su uno scoglio alto sei cubiti – e, balzato con due guardie del corpo dentro a una barca ormeggiata li vicino, fuggì in mezzo al lago. 620 – 21, 7. I suoi soldati impugnarono immediatamente le armi e si gettarono contro gli attentatori. Allora Giuseppe, temendo che per il malanimo di pochi scoppiasse una guerra civile con la conseguente rovina della città, mandò un messaggero ad avvertire i suoi di preoccuparsi soltanto della sua sicurezza, e di non mettere a morte nessuno e di non processare alcuno dei colpevoli. 621 Quelli, inchinandosi all’ordine ricevuto, se ne stettero tranquilli, ma la gente del contado, saputo del complotto e di chi l’aveva ordito, si radunò contro Giovanni, che però riuscì a prevenirli rifugiandosi nella sua città natale, a Giscala. 622 Ma intanto i Galilei accorrevano intorno a Giuseppe, una città dietro l’altra, e diventati molte decine di migliaia di armati gli gridavano di essere venuti per abbattere il comune nemico Giovanni, e che erano pronti a dar fuoco a lui e alla città che lo accoglieva. 623 Giuseppe dichiarò di apprezzare i loro sentimenti, ma ne frenò gli ardori, preferendo di aver ragione degli avversari con l’abilità piuttosto che col sopprimerli. 624 Fattisi dare i nomi di quelli che nelle varie città si erano uniti a Giovanni – e volentieri i loro concittadini gliel’indicarono -, per mezzo di banditori minacciò che avrebbe saccheggiato i beni e bruciato le case e le famiglie di coloro che entro cinque giorni non si fossero staccati da Giovanni. 625 Ben presto ne fece disertare 3mila, che vennero a gettare le armi ai suoi piedi, sicché costrinse di nuovo Giovanni, rimasto con circa 2mila banditi siriaci, a ritornare dalle azioni in grande stile alle subdole manovre. 626 Infatti quello mandò nascostamente emissari a Gerusalemme a denunciare Giuseppe per la grande potenza che aveva raggiunta, e dicendo che fra non molto sarebbe arrivato da padrone in città, se non fosse stato fermato in tempo. 627 A queste accuse il popolo, che le prevedeva, non diede importanza, ma i potenti, spinti dall’invidia, e alcuni dei magistrati inviarono segretamente a Giovanni denari per arruolare mercenari e combattere contro Giuseppe; anzi decisero tra loro di rimuovere Giuseppe dal comando. 628 Ma poiché ritenevano che il decreto da solo non sarebbe stato sufficiente, mandarono 2.500 soldati con quattro personaggi di rilievo, Ioesdro figlio di Nomico, Anania figlio di Sadoc, Simone e Giuda figli di Gionata, tutti abilissimi nel parlare, incaricati di distruggere la popolarità di Giuseppe; se egli si fosse mostrato pronto a partire dovevano lasciare che esponesse le sue ragioni, mentre, se tentava di rimanere a forza, dovevano trattarlo come nemico. 629 Ma gli amici informarono Giuseppe che un esercito era in marcia contro di lui, senza però dirgli la ragione, poiché i suoi avversari avevano deliberato in segreto. Non avendo egli anche perciò adottato nessuna contromisura, ben presto all’arrivo dei nemici quattro città passarono dalla loro parte, Sepphoris, Gabora, Giscala e Tiberiade. 630 Giuseppe però le recuperò rapidamente senza ricorrere alle armi, e catturati con abili manovre i quattro capi e i più valorosi dei loro soldati li rinviò a Gerusalemme. 631 Contro di loro si levò furioso lo sdegno popolare, e li avrebbero uccisi assieme ai mandanti, se non si fossero messi in salvo con la fuga. 632 – 21, 8. D’allora in poi, Giovanni se ne stette rinchiuso fra le mura di Giscala per paura di Giuseppe.

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ecco dunque il ritratto che Giuseppe Flavio fa di Giovanni di Giscala; ma qualche avventuroso costruttore di ipotesi spacciate per certezze fa riferimento al passo successivo di Giuseppe Flavio, che sto per citare, per ipotizzare l’esistenza di un altro Giovanni, di Gamala e non di Giscala; e sostiene addirittura che questo sarebbe stato il vero Gesù, poi stravolto dalle tradizioni cristiane, che si sarebbe chiamato in realtà Giovanni, mentre Jeshuu, cioè Salvatore in aramaico, sarebbe stato soltanto un suo soprannome, per nasconderne la vera identità.

La Guerra Giudaica Libro VII

[73 d.C.] 252 – 8, 1. Intanto al governo della Giudea, essendo morto Basso, era succeduto Flavio Silva. Questi, vedendo che tutto il resto del paese era stato sottomesso con le armi tranne un’unica fortezza che era ancora in mano ai ribelli, raccolse tutte le forze che stavano nella regione e mosse contro di essa. Masada è il nome di questa fortezza. 253 A capo dei sicari che l’avevano occupata c’era Eleazar, un uomo potente, discendente di quel Giuda che, come sopra abbiamo detto, aveva persuaso non pochi giudei a sottrarsi al censimento fatto a suo tempo da Quirinio nella Giudea.

254 A quell’epoca i sicari ordirono una congiura contro quelli che volevano accettare la sottomissione ai romani e li combatterono in ogni modo come nemici, depredandoli degli averi e del bestiame e appiccando il fuoco alle loro case; 255 sostenevano, infatti, che non c’era nessuna differenza fra loro e degli stranieri, dato che ignobilmente buttavano via la libertà per cui i giudei avevano tanto combattuto e dichiaravano di preferire la schiavitù sotto i romani. 256 Ma queste parole erano un pretesto per ammantare la loro ferocia e la loro cupidigia, come poi dimostrarono con i fatti. 257 E in realtà, quelli che si unirono ad essi nella ribellione e presero parte attiva alla guerra contro i romani ebbero a subire da loro atrocità più terribili, 258 e quando poi vennero di nuovo convinti di falsità nella giustificazione che adducevano, ancor più essi perseguitarono chi, per difendersi, denunciava le loro malefatte. 259 Quell’epoca fu in certo modo così prolifica di ogni sorta di ribalderia fra i giudei, che nessun delitto fu lasciato intentato, né chi volesse escogitarne di nuovi riuscirebbe a trovarli: 260 a tal punto erano tutti bacati nella vita privata come nella pubblica, e facevano a gara tra loro nel commettere empietà contro il Dio e soprusi contro i vicini, i signori opprimendo le masse e le masse cercando di eliminare i signori. 261 Infatti gli uni avevano una gran sete di dominio, gli altri di scatenare la violenza e d’impossessarsi dei beni dei ricchi. 262 Furono dunque i sicari quelli che per primi calpestarono la legge e incrudelirono contro i connazionali, senza astenersi da alcun insulto per offendere le loro vittime, o da alcun atto per rovinarle.

263 Eppure Giovanni fece sì che anche costoro sembrassero più moderati di lui; egli infatti non soltanto eliminò chiunque dava giusti e utili consigli, trattando costoro come i suoi più accaniti nemici fra tutti i cittadini, ma riempì la patria di un’infinità di pubblici mali, quali inevitabilmente doveva infliggere agli uomini chi già aveva osato di commettere empietà verso il Dio. 264 La sua mensa era infatti imbandita con cibi proibiti ed egli aveva abbandonato le tradizionali regole di purità, sì che non poteva più far stupore se uno che era così follemente empio verso il Dio non osservava più la bontà e la fratellanza verso gli uomini. 265 D’altra parte, poi, Simone figlio di Ghiora quale delitto non commise? Quale sopruso risparmiò a coloro che come liberi cittadini lo avevano eletto a loro capo? 266 Quale amicizia, quale parentela non rese questi due più audaci nelle loro stragi quotidiane? Essi infatti consideravano un atto d’ignobile cattiveria far male a degli estranei, mentre ritenevano di fare una bella figura mostrandosi spietati verso i parenti prossimi. 267 Eppure, la follia omicida di costoro venne superata dal pazzo furore degli Idumei. Infatti questi empi furfanti, dopo aver ammazzato i sommi sacerdoti affinché non si conservasse neppure la più piccola particella della pietà verso il Dio, sfasciarono tutto ciò che restava degli ordinamenti civili introducendo dappertutto la più completa anarchia. 268 In tale clima prosperarono al massimo gli Zeloti, un’associazione che confermò con i fatti il suo nome; 269 essi infatti imitarono ogni cattiva azione e non tralasciarono di emulare alcun misfatto registrato dalla storia. 270 Eppure il loro nome l’avevano derivato dal loro preteso zelo nell’aspirare alla virtù, sia che volessero prendersi gioco, con la loro bestiale natura, delle vittime dei loro soprusi, sia perché stimavano beni i peggiori dei mali. 271 Comunque, fecero tutti la fine che meritavano, perché il Dio diede a ciascuno la giusta punizione; 272 infatti tutti i castighi che mai possono colpire un uomo si abbatterono su di loro anche fino all’ultimo istante di vita, facendoli morire fra i più atroci tormenti d’ogni sorta. 273 Eppure, si potrebbe dire che le loro sofferenze furono inferiori a quelle che essi avevano inflitte a chi era caduto nelle loro mani, perché non esistevano pene adeguate. 274 A esprimere degnamente il dovuto compianto per le vittime della loro ferocia non mi sembra questo il momento più adatto, e perciò ritorno al punto in cui avevo interrotto la narrazione.
275 – 8, 2. Il comandante romano mosse alla testa delle sue truppe contro Eleazar e la sua banda di sicari che occupavano Masada, e ben presto si assicurò il controllo dell’intera regione stabilendovi dei presidi nei luoghi più opportuni; 276 poi tutt’intorno alla fortezza innalzò un muro perché nessuno degli assediati potesse facilmente fuggire e vi pose a guardia delle sentinelle.
[…]

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il passo è piuttosto confuso, e la cosa non è rara un Giuseppe Flavio, uno storico che non ha avuto il dono della chiarezza cristallina di altri dell’antichità.

in precedenza Giuseppe Flavio ha attribuito al 52 d.C. la nascita della tendenza apertamente terroristica degli zeloti, quella chiamata dei sicari, in un altro passo: Però, mentre il paese veniva così ripulito [dal procuratore Felice, nominato da Claudio nel 52 d.C., come sappiamo da Svetonio, Vita di Claudio, 28; Giuseppe Flavio, invece, attribuisce questa nomina a Nerone, dunque dopo il 54 d.C.], in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassini in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Guerra Giudaica, 2.254.13, 3.

da notare, dunque, la coincidenza cronologica molto significativa col fallimento dell’azione del profeta egiziano, dell’anno stesso, che produce evidentemente una radicalizzazione in senso terroristico del movimento degli zeloti.

qui, invece, Giuseppe Flavio identifica zeloti e sicari, senza sottilizzare troppo, ed attribuisce evidentemente la loro nascita al tempo stesso della formazione del movimento rivoluzionario di Giuda il Galileo: 254 A quell’epoca; 259 Quell’epoca fu in certo modo così prolifica…: non sta parlando della situazione di tre o quattro anni prima, ma del periodo, oramai lontano, dell’origine del movimento, sessant’anni prima.

ed è abbastanza evidente che, successivamente, dal punto 263, Giuseppe Flavio riprende a parlare di Giovanni di Giscala, il suo contemporaneo che tanto odiava, dicendo che era più sanguinario di quei lontani feroci zeloti, e che agiva in combutta con Simone di Ghiora, che in effetti ebbe un ruolo di punta a Gerusalemme durante la guerra.

ma né lui né Giovanni di Giscala possono essere assimilati agli zeloti, secondo Giuseppe Flavio; anzi, con loro erano in evidente conflitto.

non mi è chiaro da dove emerga dunque storicamente, sulla base di questi testi, la figura di un diverso Giovanni, che poi sarebbe stato di Gamala.

e tutto questo trascina evidentemente nel puramente leggendario, perdipiù ben lambiccato, anche l’idea che il vero Jeshuu storico fosse lui.

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infine uno sconcertante duplicato del processo a Jeshuu nel processo a un suo omonimo, tenuto davanti al procuratore Albino, qualche anno prima dello scoppio della guerra giudaica.

veramente incomprensibile che Giuseppe Flavio, che descrive molto analiticamente l’episodio, non accenni ad un processo analogo di qualche anno prima, per giunta ad un omonimo Jeshuu, se questo fosse davvero avvenuto; sembra più probabile che qualcuno si sia ispirato a questo processo per descrivere quello allo Jeshuu profeta egiziano.

e siccome il Gesù figlio di Anania viene prosciolto dal procuratore del tempo, non pare impossibile immaginare che questo episodio sia all’origine della leggenda cristiana che vuole che un altro bar abba, figlio del padre, fosse stato liberato dal governatore romano.

La Guerra Giudaica Libro VI

[62 d.C.] 300 Ma ancora più tremendo fu quest’altro prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all’improvviso cominciò a gridare nel tempio: 301 “Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero”. Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, 302 e alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello. 303 Allora i capi, ritenendo – com’era in realtà – che quell’uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano. 304 Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un’implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: “Povera Gerusalemme!”. 305 Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare.

[66 d.C.] 306 Fino allo scoppio della guerra egli non si avvicinò ad alcun cittadino né fu visto parlare con alcuno, ma ogni giorno, come uno che si esercitasse a pregare, ripeteva il suo lugubre ritornello: “Povera Gerusalemme!”. 307 Né imprecava contro quelli che, un giorno l’uno un giorno l’altro, lo percuotevano, né benediceva chi gli dava qualcosa da mangiare; l’unica risposta per tutti era quel grido di malaugurio, che egli lanciava soprattutto nelle feste.

[70 d.C.] 308 Per sette anni e cinque mesi lo andò ripetendo senza che la sua voce si affievolisse e senza provare stanchezza, e smise solo all’inizio dell’assedio, quando ormai vedeva avverarsi il suo triste presagio. 309 Infatti un giorno che andava in giro sulle mura gridando a piena gola: “Ancora una volta, povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!”, come alla fine aggiunse: “E poveretto anche me!”, una pietra scagliata da un lanciamissili lo colpì uccidendolo all’istante, ed egli spirò ripetendo ancora quelle parole. 310 – 5, 4. A riflettere su tali cose, si troverà che il Dio ha cura degli uomini e che in ogni modo preannuncia al suo popolo i mezzi per conseguire la salvezza […]

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rimane da esaminare un ultimo passaggio della Guerra Giudaica veramente fondamentale per la ricostruzione postuma della figura di Jeshuu, ma siccome esige una lunga premessa ed una analisi altrettanto minuziosa ed attenta, gli dedicherò l’intero prossimo post.

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per promemoria personale:

https://sites.google.com/site/lesacrescritture/Home/luigi-cascioli-la-sua-favola-blasfema-contro-gesu

https://it.frwiki.wiki/wiki/J%C3%A9sus_fils_d’Ananias

https://digilander.libero.it/maximusmagnus/Gnosi/Lazzaro.htm

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