il secondo miracolo della sinagoga, a Padova. – autobiografismi post covid 7 – 50

la sinagoga di Padova, quella che (forse) domenica ha fatto il miracolo di farmi guarire dal mal di schiena, anche se non del tutto e lasciandomi esposto a qualche recidiva, dove aveva dimenticato i suoi eventuali poteri taumaturgici quando avvenne quel che ora dirò?

precisando meglio, le spiegazioni sui riti e i tabù della religione ebraica, che ho accennato nel post precedente, si svolsero nella sinagoga più piccola, direttamente annessa al museo sulla cultura di quel popolo, che si è conservata nel tempo.

ma a fianco c’era la sinagoga principale degli ebrei di Padova, e questa andò completamente distrutta il ricco interno in un incendio che le venne appiccato il 3 dicembre 1943 dai fascisti della città.

fu l’esordio di una spietata persecuzione, nella quale si diede la caccia agli ebrei della città, che vennero deportati in un campo di concentramento installato nella seicentesca e degradata villa Venier a Vo Vecchio.

da lì tra il 17 e il 19 luglio 1944 vennero trasferiti alla Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, e subito dopo ad Auschwitz, dove alcuni vennero uccisi immediatamente, perché giudicati non abili al lavoro, e la maggior parte morirono nelle settimane successive: dei 47 internati sopravvissero solo tre donne.

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queste tragiche vicende diventano il tema della seconda parte della visita, nella quale veniamo condotti davanti ad alcune cosiddette pietre d’inciampo, Stolpersteine in tedesco.

si tratta di un’opera, oramai molto nota, ideata da Gunter Demnig a Koeln, Colonia, e da allora diffusasi in 26 paesi europei, dove ad oggi ne sono state inserite più di centomila: sono targhette d’ottone che riportano i nomi e i dati biografici essenziali di morti nelle persecuzioni naziste.

io le ho conosciute in Germania, a Stuttgart, quando abitavo lì, perché due ne vennero installate vicine, e qualche tempo dopo altre quattro proprio davanti al palazzo dove abitavo, e ancora non erano note in Italia.

missing: i coniugi Meyer. 19 novembre 2006

4 Einstein che sapevano troppo. bortografia 27 novembre 2009

i quattro Einstein che sapevano troppo. 29 novembre 2009

ogni targa ha alle spalle una ricerca storica sui documenti che riguardano le persone citate e ne ricostruisce le vicende per quanto si può; di alcune resta incerta la data esatta della morte.

noi ne vediamo, in successione, sette, e le storie, a cui ciascuna accenna soltanto, e che ci vengono narrate da una seconda guida, hanno tutta l’amarezza delle vite ingiustamente spezzate.

la più terribile – citerò soltanto questa – è di una bambina di sette anni, Sara Simon Gesess, che i genitori cercano disperatamente di salvare, riuscendo alla fine a nasconderla, ma senza potere impedire che parta una enorme battuta di ricerca delle truppe tedesche e fasciste congiunte, che alla fine la scovano.

la superiora del convento di fianco al campo di concentramento di Vo rifiuta di nasconderla per un secondo tentativo di fuga, e così i nazifascisti la deportano.

finirà ad Auschwitz, uccisa il giorno stesso del suo ingresso nel campo, a sette anni, la più giovane vittima della shoah di Padova.

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altri deportati e uccisi erano studenti o laureati dell’Università di Padova, ricordati con alcune targhe al suo ingresso.

quella di Padova fu la prima università d’Europa che decise di conferire la laurea non In Christi Nomine, ma In Dei Aeterni Nomine, aprendosi di fatto anche a studenti di altre religioni, in particolare ebrei, che per secoli, nel Medioevo, venivano a studiare qui da tutta Europa e perfino dal Medio Oriente.

ma le sue radici storiche e l’abitudine all’inter-culturalità e inter-religiosità non risparmiarono che anche qui le leggi razziali venissero ferocemente applicate, in un crescendo di aberrazioni, che alla fine si conclusero con l’omicidio di alcuni membri di quella comunità, nel silenzio degli altri.

e i loro nomi ora si rischia di calpestarli, entrando.

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ma questa rassegna di vite spezzate nel modo più assurdo è un interrogativo che si apre sulle capacità apparentemente illimitate di obbedire delle menti umane convenzionali.

solo pochi uomini giusti osarono agirono contro le leggi, anche rischiando la loro vita per opporsi alla barbarie.

(aggiungo ora un doveroso tributo di memoria ad uno di questi, il fratello della mia nonna materna, Giuseppe Rossi, che a Padova era docente di matematica al liceo e, a più di cinquant’anni, si fece partigiano e rischiò davvero la vita non solo sua, ma anche quella di tutti i suoi familiari, mia madre compresa, come raccontati altra volta).

ma possibile che quasi nessuno sentisse il bisogno di reagire quando agli ebrei venne tolta la cittadinanza ed ogni diritto civile, perfino a chi, nato all’estero da genitori italiani di religione ebraica, era venuto volontario a combattere nella prima guerra mondiale e aveva ottenuto una medaglia al valore?

chi era quel rettore dell’università di Padova che alla richiesta di uno studente di potere continuare gli studi rispose con una riga burocratica Duole comunicare che la Sua domanda non può essere accolta?

chi erano i docenti universitari che rimasero indifferenti alla cacciata di cinque loro colleghi ebrei?

dove erano gli insegnanti che tacquero, quando videro espulsi alcuni loro studenti, e spesso tra i più promettenti?

e chi erano coloro che parteciparono attivamente a denunciare e a mandare a morire i propri vicini di casa, solo perché diventati improvvisamente il capro espiatorio prescelto da un regime orribile, per coalizzare i propri sudditi attorno all’odio per paure inventate dal nulla?

soffro ancora al pensiero, come se il recentissimo passato e ancora il presente non ci dessero ampia prova del potere intrinseco del conformismo della bestia umana.

per fortuna oggi in forme ben lontane da quelle, ma lasciando capire bene che basterebbe aumentare il terrore e la repressione, per aumentare anche l’odio e trasformarlo in volontà di uccidere.

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ma la cosa più straordinaria che alla fine questa visita mi imprime nella mente è l’incredibile capacità di questa piccolissima comunità superstite, di farsi storia e memoria, anche scrivendo libri, qualcuno, con le storie sanguinose della propria famiglia, costruendo istituzioni, gestendo un museo a ricordo di questi orrori,

è quello che io chiamo il vero miracolo della sinagoga, che ha creato un senso di appartenenza di un gruppo chiaramente anche dotato di capacità culturali ed economiche, così totalizzante, assoluto ed esclusivo, da farlo diventare lui stesso memoria vivente di quello che non va dimenticato.

dovrebbe restare come monito, ma non è sufficiente a salvarci dal rischio che la storia si ripeta, semplicemente perché non sappiamo riconoscere il meccanismo infernale dell’esclusione e dello stigma se soltanto si rivolge a qualcuno che oggi porta un altro nome.

e non nasconde il rischio che alla fine si parli solo di QUESTA barbarie, come se fosse isolata, e come se bastasse a giustificarne altre, che vengono oggi da questa stessa parte.

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nella seconda sinagoga, oggi essenzialmente ricostruita, delle tre che addirittura erano collocate nel ghetto di Padova, una gigantografia ricorda un grande e bellissimo monumentale armadio sacro seicentesco, che sembra quasi un altare cattolico, capolavoro di scultura e intarsi.

ma l’originale non è più qui: è stato messo in salvo, trasferendolo nella Palestina dello stato di Israele.

e la cosa mi ferisce un poco, come fosse un furto legalizzato a favore del nuovo stato, ma anche una specie di rinuncia e di autolimitazione degli ebrei rimasti qui.

ma la scelta, abbastanza urtante, ha le sue spiegazioni: una piccola esposizione degli oggetti tipici del culto ebraico si accompagna ad una sintetica esibizione di documenti, dal Manifesto della Razza, al titolo vergogna del Corriere della Sera: Le leggi per la difesa della razza approvate dal Consiglio dei ministri.

difesa di qualcosa che non esiste, la razza.

e, se dovessimo leggere identità nazionale, al suo posto, allora ci troveremmo di nuovo nel presente, con un governo che attua la politica ripugnante di trovare i trucchi per far annegare nel Mediterraneo il maggior numero di immigrati clandestini possibile.

e noi tutti tacciamo (io stesso), alla stessa maniera di allora.

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un ultimo volontario ci accompagna all’antico cimitero ebraico di Padova, inizialmente fuori dalle prime mura medievali, ma poi inglobato in quelle più ampie, costruite da Venezia dopo l’annessione della città.

ci viene spiegato l’insieme degli usi con cui in questo ambito culturale ci si rapporta con la morte: l’abitudine di tagliarsi l’abito in segno di lutto; la sepoltura dei morti entro le 24 ore, completamente nudi, in Israele, e avvolti solo in un lenzuolo, e vestiti, fuori dalla Palestina – ma sempre dovrebbero essere senza bara, a meno che la legge locale non lo impedisca, come in Italia; le varie fasi, molto ritualizzate del lutto; e l’assenza di un vero e proprio culto dei morti, come quello cattolico.

e soprattutto la concezione ebraica della morte che non separa completamente dalla vita, ma colloca in una specie di nuova condizione, per cui essa è più in momento di passaggio, che la fine dell’esistenza, pur se non si crede in nessuna immortalità; così almeno ci viene presentata.

comunque la sepoltura precoce stimolava un fiorente furto con rivendita dei cadaveri ebrei, a vantaggio degli studenti di medicina dell’università, per i loro studi di anatomia, tanto che la comunità dovette collocare un guardiano del cimitero per porre fine al lugubre commercio.

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ma eccoci tra le lapidi di questo cimitero, che ha poco da invidiare a quelli famosi di Praga: alcune sono antiche di secoli.

senza altro segno che il nome del defunto, senza immagini né altri simboli, in genere, che quello della tribù di appartenenza; senza gli oggetti cristiani di culto della memoria del morto, se non qualche sassolino che viene deposto sulla lapide a ricordo del fatto che negli anni della mitica peregrinazione nel deserto dopo la fuga dall’Egitto, la durezza delle rocce impediva l’inumazione, e dunque i corpi dei morti venivano ricoperti dalle pietre che ciascuno collocava sopra il cadavere.

fra queste tombe la più illustre è quella di un medico e rabbino ebreo del Seicento, Avraham Catalano, morto nel 1642, che compose una descrizione della peste di Padova del 1630-31, Olam hafukh, Il mondo sconvolto, non pubblicata, allora, e riscoperta di recente:

indica quegli stessi modi di gestire i contagi che abbiamo dovuto adottare anche in questi nostri tempi: maschere, isolamento sociale, lavaggio frequente della mani, anticipando di secoli le conoscenze scientifiche che abbiamo oggi.

questo, nel tempo in cui si attribuiva la peste alle influenze celesti, come ben racconta il Manzoni.

. . .

ma è già passata l’una quando si conclude questa parte della visita, decisamente ricca e stimolante.

ci precipitiamo al ristorante, non troppo lontano dal cimitero; ed è inutile raccontare adesso del pasto e di come socializzo facilmente nel gruppetto degli abitanti di Muscoline, e con la giovanissima e neolaureata assessora alla Cultura, promotrice di questa bella iniziativa.

qualche assaggio di un rosso vinello veneto, che a me astemio o quasi fa sempre un certo effetto, anche se limitato a due dita (orizzontali), e l’ottimo baccalà, di tradizione per me quasi familiare, contribuiscono all’euforia condivisa e alle belle conversazioni, che sarebbe troppo lungo riportare.

basterà dire che mi sento quasi adottato da Muscoline e vengo inserito nella lista di chi verrà avvisato delle prossime iniziative che promettono di essere altrettanto stimolanti.

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ci rimane un paio d’ore circa per girovagare per Padova, dove riusciamo via via a disperderci; un gruppetto ha prenotato la Cappella degli Scrovegni, ma io preferisco il libero camminare alla scoperta veloce dei luoghi più mitici di questa città nobile e grandiosa.

a breve distanza dal Prato della Valle, dove ci aspetta già il pullman, chiude la camminata la basilica di sant’Antonio o del Santo, come si dice semplicemente qui, e ci resta una mezzora buona per girarci dentro, nonostante la funzione religiosa in corso e il rimprovero che mi becco perché fotografo (ma continuerò a farlo).

è per me una sorpresa: l’avevo già vista un paio di volte, una da ragazzo, nel 1964, quando eravamo venuti qui a trovare una zia di mio padre, la vedova di quello zio di cui ho raccontato sopra, ed un’altra volta in un momento che non ricordo, ma non mi ero reso conto che fosse così grandiosa e sfarzosa all’interno, in stridente contrasto con l’apparente povertà semi-francescana dell’esterno.

ma non manca la Cappella delle Reliquie a risvegliare i miei antichi furori iconoclasti, anche se oggi sono più in grado di apprezzare la straordinaria ricchezza artistica dell’apparato di contorno.

. . .

ma così vanno le cose: non siamo sempre gli stessi, noi, e forse anche i luoghi cambiano in qualcosa.

ogni viaggio ci trasforma un poco, come ogni lettura ci presenta un autore che non è più lo stesso di quando l’abbiamo letto in precedenza.

e questo viaggio ha trasformato un poco anche me.

mi ha reso più chiara la paura in cui vivono tuttora gli ebrei che discendono da chi si è salvato da quella feroce manifestazione dell’odioso conformismo di massa nel terrore che fu il fascismo.

e mi ha posto di fronte ad una contraddizione probabilmente insolubile tra le loro reazioni e quelle dei palestinesi cacciati dalla loro terra…

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la prima parte, qui: il miracolo della sinagoga, a Padova. 1a parte 

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avevo promesso anche un montaggio video delle immagini di Padova; e forse non basterà un videoclip soltanto.

ma devo rinviare, per limiti di tempo.

comunque segnalerò la cosa, quando saranno fatti, che siano uno o molti, con nuovi post.

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eccoli, comunque, anche qui, in aggiornamento del post:

un ritratto di Padova. autobiografismi post covid 6 bis – 48bis

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Padova ebraica. autobiografismi post covid 6 ter – 48ter

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Padova, la basilica. autobiografismi post covid 6 quater – 48quater

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12 commenti

  1. “…di un gruppo chiaramente anche dotato di capacità culturali ed economiche…” Questo non va mai dimenticato.
    Ben facesti in un tuo post precedente a ricordare che i genocidi nella storia sono stati tanti e che non tutti i superstiti hanno avuto la forza e la capacità di conservarne degnamente la memoria.

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    • giusta sottolineatura, grazie.

      fa parte del conformismo, che non sarà mai combattuto abbastanza, ricordarsi soltanto del genocidio degli ebrei, soltanto perché fu oggettivamente il più consistente e per la forza con cui loro sono riusciti a ricordarlo.

      il quadro delle stragi di quel passato è così ricco che ogni dimenticanza è ingiusta: sia delle vittime slave del terrorismo nazi-fascista, sia di quelle italiane della successiva vendetta degli slavi.

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      • Una peculiarità del genocidio degli ebrei per mano nazista è stata anche l’estrema metodicità e tecnica con cui è stato portato avanti. Lager perfettamente organizzati, logistica impeccabile (Eichmann) filiera della morte scientifica, contabilità da ragioniere. Molto diverso dalle mattanze degli armeni o dei tutzi o altre del passato. Come se gli sterminatori nazisti scientificamente preparati e gli sterminati, i colti e ricchi ebrei, si fossero messi su un altro livello rispetto alle altre barbarie.

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        • questa osservazione è acuta e la condivido pienamente.

          ricordo la visita al campo di sterminio di Buchenwald, nei boschi a pochi chilometri e nel circondario stesso di Weimar, dove erano vissuti Goethe e Schiller, i padri della cultura tedesca moderna. l’abbinamento era quanto mai emblematico, perché la strage nazista degli ebrei e delle altre vittime designate (omosessuali, comunisti, zingari, malati di mente e handicappati, testimoni di Geova, vagabondi) mostra che neppure la cultura più evoluta, come era quella tedesca di allora costituisce un argine sufficiente all’istinto genocida, anzi riesce soltanto a renderlo più sistematico e freddamente feroce.

          non dimenticherei neppure che la scienza tedesca e italiana del tempo si schierò apertamente a favore delle discriminazioni razziali, sostenendo che avevano una base oggettiva e scientifica, giusto per attualizzare il discorso, e che sulle sventurate vittime dei Lager scienziati di un certo successo conducevano disumani esperimenti per il progresso delle conoscenze mediche.

          ultimo dato, solitamente taciuto, è la logica rigorosamente capitalistica applicata alla shoah: i prigionieri venivano tenuti in vita fino a che erano minimamente in grado di lavorare e produrre profitto in u n calcolo accuratissimo del rapporto economico gìfra il poco cibo somministrato e il rendimento realizzato. quando questo rapporto diventava negativo e il mantenimento ulteriore si trasformava in una perdita economica, venivano soppressi, con la piccola spesa residua dell’uccisione, realizzata peraltro nel modo più economico possibile, con il gas e la successiva combustione del cadavere.
          i cadaveri stessi peraltro venivano sfruttati economicamente da ogni punto di vista possibile, ad esempio per la produzione di sapone.

          questo mix di calcolo economico razionalissimo e di barbarie dell’stinto xenofobo è la prova migliore della natura profonda bestiale del capitalismo.
          ma questo è molto meglio che resti celato sotto il buonismo dolciastro delle Giornate della Memoria offuscata.

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  2. Padova citta bellissima è per me cugina della mia Bologna per il solo fatto di avere entrambe una facoltà di Astronomia, ma sicuramente le affinità culturali sono molte altre.

    Ricordo con emozione la visita alla cattedrale di sant’Antonio; ho provato li dentro delle sensazioni che se fossi credente le avrei attribuite ad un tocco divino alla mia anima.
    Leggere tutti gli ex-voto in una miriade di lingue, perlopiù latine, è stata un’esperienza veramente forte.

    Grazie di questo bel resoconto.

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    • la cattedrale del Santo mi ha sempre provocato un senso di ripulsa per lo sfarzo eccessivo; mi ci sono riconciliato (soltanto un poco) solo a questa mia terza visita, da cui peraltro è rimasto escluso Donatello; e anche il Gattamelata equestre era in restauro.

      invece ho vissuto anche un forte senso di somiglianza della città con Bologna, non solo per i ricchi portici e il rosso dei vecchi mattoni, ma anche per l’uguale sottovalutazione dell’enorme ricchezza artistica delle due città.

      grazie del bel commento. 🙂

      (ho aggiunto, rileggendo e correggendo diverse sviste ed errori di battitura, un riferimento allo zio materno di mio padre, che viveva a Padova e si fece partigiano abbandonando il posto di insegnante al liceo; quasi imperdonabile dimenticarlo, proprio parlando di Padova, dove viveva).

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