due viaggi a Siracusa – autobiografismi post covid 19 – 131

Il paesaggio agrario tra Noto e Siracusa, visto dal bus, ha qualcosa di esotico, per me cittadino del Nord, e mi potrebbe parere di essere in qualche paese arabo, se non fosse perché il verde è più vivo e diffuso.

In effetti qui siamo leggermente a sud dell’estremo nord della Tunisia, ad esempio.

I fichi d’India, spesso usati come siepi, per dividere le proprietà, gli ulivi e gli agrumeti, che qui sono liberi dai teli di copertura e protezione visti i primi due giorni, si alternano nelle vallette in cui a volte si aprono improvvisi riflessi verdastri di acqua stagnante o di rigagnoli lenti, ma più spesso aride petraie bianche completamente asciutte.

Sembrano moltissimi gli alberi di limoni, se non si tratta invece di aranci non ancora maturi e gialli.

Per qualche tratto si intravvede il mare, non proprio vicinissimo, ma che quasi conforta lo sguardo, come se non bastasse l’azzurro già intenso del cielo, ma servisse un rinforzo di blu potenziato.

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Il tempo del percorso serve a raccogliere qualche ricordo sul mio primo viaggio a Siracusa, che fu più di cinquant’anni fa, durante le ferie di Natale, e credo che fosse il 1972.

Eravamo in tre, tutti insegnanti, ma combinati stranamente e per diverso tipo di legami.

Con me c’era l’infelice Luciana, una compagna di università, ma soprattutto l’affascinante Silvana, che avevo conosciuto attraverso il gruppo politico del Manifesto di Brescia e aveva quattro anni più di me e un’aria estremamente seducente, che certamente in qualche modo la infastidiva e di cui cercava di liberarsi, facendo la sostenuta, ma senza rendersi conto che questa sua irraggiungibilità la rendeva ancora più desiderabile.

Probabilmente questo viaggio lo faceva con me, considerandomi abbastanza inoffensivo e anche poco pericoloso; ma ad ogni buon conto mi aveva abbinato con quell’altra presenza femminile, del tutto superiore ad ogni tentazione e per questo l’ho definita prima infelice.

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Luciana era figlia unica di genitori anziani, nata con una brutta caratteristica fisica, che era quasi una deformazione: un mento spropositato e sporgente oltre ogni dire, per il quale i genitori avevano tentato, su lei ancora piccola, un intervento di riduzione, che gliene aveva segato via un pezzo.

Ma, forse per le tecniche poco evolute di allora, o per la cattiva mano del chirurgo, l’esito era stato ancora più catastrofico: prima di tutto il mento era stato segato male, obliquamente, rendendo il viso pesantemente asimmetrico, e poi dall’osso tagliato erano germogliate delle escrescenze quasi spinose che sporgevano sotto la pelle, come se la natura cercasse di riconquistare lo spazio perduto.

Questo, unitamente ad un carattere opaco e a doti intellettuali modeste, condannava Luciana ad una spietata solitudine; lei però si era come un poco affezionata a me, studiavamo qualche materia assieme, se l’avevamo in comune nel piano di studi (lei faceva lettere moderne, io antiche o classiche); ad esempio, avevamo preparato assieme l’esame puramente linguistico di francese, allora obbligatorio alla facoltà di Lettere di Milano, che si era svolto per lei in forma farsesca:

presentatasi con un testo della Nausea di Sartre sottolineato e annotato a matita, il docente le aveva intimato di ripulire la pagina scelta a caso prima di leggerla e tradurla, e allora lei, in preda all’ansia, aveva aperto l’astuccetto che aveva nella borsa e ne aveva tratto un gomma pubblicitaria a forma di Mucca Carolina, ma questa le era sfuggita di mano ed era caduta sul pavimento, dove rimbalzava qua e là, mentre lei cercava di prenderla inseguendola a carponi e fin sotto la cattedra, tra le gambe del docente, tra le risate dei presenti.

Poi si era finalmente seduta davanti al professore stupito, aveva cancellato diligentemente e cominciato a leggere.

E la prima parola del capoverso da tradurre era stata: Merde!

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Questo era avvenuto qualche anno prima, poi anche Luciana aveva iniziato a fare supplenze, come me, ma proprio qui sarebbe arrivata la sua totale rovina, perché durante la ricreazione era uscita dalla scuola a bersi un caffè e giusto in quel momento una bambina era caduta dall’altalena, ferendosi gravemente con una frattura del bacino, che l’aveva resa sterile.

E così Luciana dovette pagare di persona un risarcimento altissimo, per il quale si dovette vendere la bella villetta suburbana in cui viveva con i genitori, e che cosa successe di loro, dopo, non lo so.

Ma, prima di tutto questo, durante quel viaggio, Luciana aveva cominciato a dare segni preoccupanti di essere strana anche mentalmente: ci aveva rivelato che lei si sentiva segata in due parti distinte, la superiore e la inferiore, e che era tormentata dalla puzza della parte di sotto, anzi ci chiedeva se non la sentivamo anche noi e se non ci dava fastidio, perché era proprio forte.

Noi pensavamo che scherzasse, e invece no, parlava molto seriamente, e la domanda veniva ripetuta abbastanza spesso.

L’odore maligno a volte diventava così forte che lei ci chiedeva angosciata come avrebbe fatto a liberarsene.

Eppure non le passava per la mente che questo potesse essere un sintomo grave di un disturbo mentale, le sembrava una semplice stranezza, e noi ci limitavamo a dirle: dai, passerà.

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Neppure alla bella Silvana la vita fu favorevole, perché dopo essere stata la donna del leader del Manifesto di Brescia, un mio compagno di scuola, al quale io avevo lasciato volentieri questa funzione, accontentandomi di fare l’intellettuale del gruppo, si lasciarono e lui si mise con una mia alunna del Liceo Classico, dove avevo fatto il supplente e che si era chiaramente innamorata di me, lei diciassettenne ed io 23enne, ma totalmente bloccato nella relazione dal ruolo, che mi vietava di viverla.

Dopo questo abbandono, Silvana finì nelle mani di un poco di buono, un giocatore incallito, che la picchiava, la spinse ad abbandonare la politica e la città e la indusse a ritirarsi in un paesetto del lago d’Iseo a godersi quelle botte segno di un amore indistruttibile, forse, oppure di una schiavitù alla quale lei non aveva nessuna intenzione di sottrarsi.

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Ma ignari, allora tutti del nostro futuro destino, avevamo iniziato quel viaggio, partendo da Brescia con una rustica Renault 4 rossa – era certamente la mia -, dicendoci: quando siamo stanchi, ci fermiamo.

E in questo modo avevamo attraversato l’Italia, e poi, in un’alba piena di promesse, anche lo stretto di Messina, ci eravamo lasciati alle spalle anche Catania, che non ci attirava neanche un po’, e alla fine avevamo pensato che Siracusa potesse essere la nostra ultima meta.

Ma non avevamo rinunciato nei giorni successivi a spingerci fino a capo Passero, giusto per dire che eravamo arrivati al punto più meridionale d’Italia e avevamo visto la Sicilia fino in fondo.

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E ora dire che cosa ci era parsa Siracusa in quei giorni è quasi impossibile: l’avevamo mitizzata oltre ogni limite.

Da qualche parte, perdute, dovrebbero pur esserci ancora le riprese che avevo fatto di quei giorni magici, ancora con la pellicola a 8 millimetri e una cinepresa sovietica comperata usata a Milano due anni prima; ma le ho perse, oppure non le ho mai fatte riversare; proverò a cercarle di nuovo.

Comunque la mia cinepresa interiore memorizzò una scena impagabile all’ingresso dell’isola di Ortigia, tra le colonne spezzate di un tempio dorico, su cui stava stesa su un filo della biancheria ad asciugare al sole.

Avevamo poi visitato altri resti archeologici, fuori dal centro, ma altrettanto impresse mi erano rimaste soprattutto le solenni colonne di un tempio greco antico incorporate nel duomo della città.

Ecco questa è la Siracusa che vorrei ritrovare, come sarà possibile, semmai, riconoscerla mezzo secolo dopo e dopo tanta vita.

Non voglio essere viaggiatore qui altro che delle mie memorie, e ritrovare Ortigia, l’isola che è il suo centro storico, e dovrebbe quasi essere un comune a parte, come Venezia per Mestre.

Che mi apparve allora come un sogno di case bianche affacciate sul mare e inondate di sole e avevo detto a Silvana e Luciana: ecco, qui io vorrei vivere.

fantasie sprecate.

Ed eccomi ora a fare la verifica di quelle esperienze giovanili, rimaste stampate nella mente, come frammenti di quella autobiografia amorosa per noi stessi che alla fine chiamiamo Io.

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Sbarco a Siracusa nel pomeriggio: l’ho vita profilarsi da una superstrada veloce come una striscia di case colore ocra protesa nel mare, poi sono sbarcato dall’autobus.

avrò soltanto un chilometro da fare o poco più, prima di arrivare ad Ortigia: il mio ostello – un vero e proprio ostello, questa volta – l’ho scelto nel cuore di questa antica isola, per respirare ancora il sapore di quel mare, che sarà la mia madeleine, non così infantile, però…

Cammino veloce, ma mi fermo spesso a fotografare, però, deponendo la mia valigetta; ecco il porto grande, quello commerciale, ed ecco i due porti piccoli attorno al breve ponte che unisce Ortigia alla terraferma.

Il tramonto discende sontuoso ed accende i colori, ed ecco le antiche colonne, non così vicine al ponte come le ricordavo, ma certamente nessuno le ha spostate.

Ovviamente non ci sono panni stesi, il luogo è rinchiuso da una cancellata.

Sono ancora affascinanti, ma è la mia mente che è diventata un poco opaca: la bellezza si è come allontanata da me, e questo è vero, letteralmente.

Ma posso ancora guardarla, almeno, e sentirla ancora un poco come cosa che non è mia.

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L’ostello è nella parte orientale dell’isola, quasi affacciato sul mare.

Devo attraversare i vicoli stretti, per arrivarci, guidato dal navigatore che mi parla dal cellulare.

Non sono più loro, una triste decadenza li occupa, e non saprei dire bene perché.

Probabilmente non sono troppo diversi da quello che erano, qualche scrostatura in più, il bianco che è diventato opaco, ma è la gente viva che manca ed è il mondo attorno che è cambiato, e ha cambiato anche loro.

Qui la vita sembra sospesa, fuggita altrove, nelle strade abbastanza orrende che ho appena attraversato, cercando di non vederle neppure.

Ortigia è morta, diciamolo pure, rifiutata dall’Italia consumista e perbenista.

L’hanno uccisa assieme il politically correct, che non accetta sbavature e sporcizia, e il berlusconismo che esalta la crassa comodità, e in nessun luogo meglio che qui si vede che sono le due facce della stessa medaglia.

Le automobili che pure circolano nelle strade più esterne, cioè sul lungomare, sembra che abbiano a loro volta soltanto voglia di fuggire.

Non importa, in fondo me lo aspettavo, qualcuno me lo aveva pure anticipato, su questa piattaforma blog.

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Ecco l’ostello, con qualche vaso di fiori all’esterno.

Non c’è bisogno neppure di suonare: la porta esterna è spalancata, e quella interna socchiusa…

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