?Dio esiste? la Trascendenza di Carbonelli. divagazioni di filosofia, 8

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ho già espresso nel post precedente di questa serie la mia sorpresa nel trovare una conclusione intitolata Trascendenza nel libro Filosofia teoretica dell’amico filosofo Antonio Carbonelli, e lui mi ha già garbatamente risposto su questo punto, per il quale rimando ai commenti di quel post.

ora qui proseguo esaminando, per il primo punto, l’elegante conclusione del suo percorso filosofico, che si articola in due capitoli: 24. Inizio e 25. Fine.

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la domanda iniziale dell’Inizio (mi scuso del gioco di parole) è: Dio esiste?

ma, prima di procedere, chiedo il permesso di esporre il mio punto di vista sulla questione.

chiedersi se Dio esiste è come chiedersi se il numero esiste.

certo che sì, e certo anche che no: dipende dal significato che diamo alla parola esiste.

di nuovo la ricerca filosofica frana sui limiti intrinseci del linguaggio umano.

infatti la parola esistere non ha un significato solo, ma noi la usiamo come espressione unica per indicare modi di esistere totalmente diversi.

ad esempio, i numeri certamente esistono, come fatto mentale e come struttura nascosta che noi attribuiamo alla realtà, ma non possiamo certo pensare di incontrarli per la strada.

il filosofo cercherà dunque di separare con due parole diverse i due concetti diversi al momento confusi nella stessa parola.

la m..da sul marciapiede, che Carbonelli cita come immagine forte della realtà che c’è, non diremo allora che esiste, ma semplicemente che c’è, appunto: c’è sul marciapiede, non esiste sul marciapiede.

ma allora, da questo punto di vista, sembra soltanto una barzelletta la scritta Dio c’è, che qualche volenteroso credente spalmava sui muri qua e là, soprattutto una ventina d’anni fa, ai tempi del cattolicesimo eroico, cioè aggressivo, di Wojtyla.

Dio esiste, come concetto mentale, come esiste il numero, ma certamente non c’è, cioè non è qui.

anzi, dire che Dio possa essere in qualche luogo fisico è una bestemmia, oppure una contraddizione logica evidente.

per inciso dirò, come è evidente da Feuerbach in poi, che, se gli uomini sparissero tutti dalla faccia della Terra, Dio cesserebbe di esistere (come i numeri), dato che è soltanto un’idea che appartiene a loro:

è l’uomo che crea Dio, e non viceversa.

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ma, torniamo all’analogia tra il numero, come concetto umano e strumento interpretativo della nostra mente per interpretare la realtà, e l’idea di Dio, cioè Dio come idea, che analogamente è servita per meno di tre millenni a certe civiltà umana per interpretare il mondo.

come il numero è in realtà il concetto comune riepilogativo col quale indichiamo una varietà di numeri, così anche l’idea di Dio è molteplice e chi afferma che Dio esiste deve spiegare bene di quale Dio parla, perché per paradosso il Dio unico non è uno solo, ma sono diversi.

e non soltanto le diverse idee di Dio, che religioni diverse propongono, ma anche le idee infinitamente diverse di questi Dio unico di una determinata religione, che poi personalmente si crea ciascun uomo che aderisce a una di queste.

in questo modo io mi sottraggo ben volentieri alla millenaria e in fondo tediosa disputa su una cosa di per sé evidente, che è l’esistenza di Dio.

che certamente esiste come concetto, sia pure cangiante, usato da molte menti umane come strumento di analisi della realtà, e la cosa è talmente evidente che non neppure bisogno di una dimostrazione filosofica.

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ma vengo allora finalmente al modo in cui affronta la questione Carbonelli, scusandomi di questa intrusione non richiesta del mio modo particolare di vederla.

Carbonelli affronta i diversi modi in cui nella tradizione filosofica occidentale (e solo in questa) si è affrontata la questione dell’esistenza di Dio, per cercare di dimostrarla.

il primo filone è quello della ricerca aristotelica della causa prima: con una grossolanità sorprendente, Aristotele cercò questa, poi identificata con Dio, come soluzione al problema della catena delle cause, per spezzarne l’infinità potenziale.

non si rese minimamente conto che la causalità è soltanto una struttura logica della mente umana (ci volle Kant per arrivarci) e con una presunzione tanto ridicola quanto infantile sulle potenzialità del linguaggio umano di spiegare il mondo, disse che anche il tutto aveva bisogno di una causa, visto che, per la nostra mente, ogni essere particolare ne aveva una; chiamò causa prima questa presunta causa ultima del tutto, cioè dell’universo, e pensò così di avere dimostrato non solo che esiste, ma perfino che c’è, visto che, per agire nel mondo, deve poi collocarsi nel mondo.

il suo concetto, che venne poi identificato con Dio dai cristiani, non aveva proprio niente a che fare, dunque, col Dio cristiano, ma direi perfino col Dio di qualunque teologia, essendo in ultima analisi un concetto piuttosto della fisica, ma per secoli teologi volenterosi cercarono di dimostrare che questa causa prima di Aristotele era poi lo stesso Dio degli ebrei e dei cristiani, Jahvè, o erano gli Elohim della Bibbia ebraica, arbitrariamente trasformati in un nome collettivo.

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a questa strada poco persuasiva il medioevo aggiunse la cosiddetta prova ontologica: poiché l’essere umano può pensare che esista un essere perfettissimo, ?da dove può derivare questa idea di tanto superiore alla nostra mente?, se non proprio da questo essere perfettissimo che la instilla in noi.

viene da dire no comment, di fronte a questo ulteriore esempio dei disastri che può provocare un uso del linguaggio inconsapevole dei suoi limiti.

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ma passiamo oltre: fino a qui sto seguendo, se non sbaglio, passo passo, riassumendole molto sinteticamente, le considerazioni che fa Carbonelli, nel suo modo molto originale di farle, di cui non ho ancora parlato, cioè attraverso una monumentale serie di citazioni delle riflessioni dei filosofi più vari.

anche lui conclude che la soluzione sta piuttosto in un socratico so di non sapere, ma intendendo la frase nel suo senso più profondo: quello che rende Socrate un potenziale filosofo della post-modernità, poi stravolto e negato proprio dal suo allievo più autorevole, Platone.

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ma qui, arrivato alla conclusione che l’esistenza di Dio non si può dimostrare, Carbonelli innesta una svolta e si domanda se si può dimostrare allora l’inesistenza di Dio.

cita Chomsky, il maestro, forse, della filosofia post-moderna: Non possiamo giungere alla dimostrazione che Dio non esiste, perché non sappiamo bene che cosa non esisterebbe.

perfetto, direi io; Carbonelli invece a questo punto dice che, se di Dio non si può dimostrare né l’esistenza né l’inesistenza, così cambia tutto, non si può escludere la possibilità dell’esistenza di Dio.

lascio al mio eventuale lettore di giudicare per conto suo; io dico soltanto, riallacciandomi alle mie premesse: ?di quale Dio? di tutti i diversi Dio unico, e quindi di nessuno.

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Carbonelli ammette la possibilità della trascendenza, ma neppure io ritengo che vada negata questa possibilità.

Carbonelli stesso dimostra questa possibilità in modo indiscutibile, perché è una persona che la ammette.

il fatto è che la trascendenza è soltanto una forma del pensiero umano; in questo senso non ha senso né dimostrarne la validità che negarla, occorre semplicemente riconoscerla come fatto soggettivo reale.

ma di qui a trasferire la soggettività alla sfera delle esperienze naturali, il salto è impossibile, è un salto mortale.

8 commenti

  1. Aristotele non ha parlato di Dio però.
    È Kant che, portando alle estreme conseguenze il principio dell’empirismo di Locke, dimostra l’indimostrabilità dell’esistenza di Dio.
    E in questo senso Kant è il punto chiave della filosofia della modernità (contrariamente a quanto mi obiettò Severino).
    Concordo peraltro sul fatto che si debba andare oltre la modernità.
    E sul fatto che Socrate un potenziale filosofo della post-modernità, poi stravolto e negato proprio dal suo allievo più autorevole, Platone.
    E è proprio questo che propongo.

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    • la prima osservazione critica sul mio post, riferita ad Aristotele, è azzeccatissima, e mi scuso della grossolanità con cui ho sintetizzato in un concetto solo la causa prima di Aristotele e il Dio unico dei suoi interpreti cristiani successivi: errore mio, venuto quasi naturale, a dimostrare certi guasti della tradizione. ho quindi corretto qui sopra un paio di passaggi, per precisare meglio questa distinzione, giustamente richiamata da te.

      sul resto ci possiamo ritrovare abbastanza, ma per me andare oltre la modernità non significa rinnegarla, e fare passi indietro, verso qualche forma di filosofia scolastica, ma integrarla e rendere la sua consapevolezza critica dei limiti della ragione umana ancora più profonda, senza che questo possa implicare il ritorno della fede e della trascendenza come fatti razionali.

      in altri termini, creda chi vuole, ma la sua fede è un fatto privato, che non ha e non può avere nessun significato dal punto di vista filosofico della ricerca di una spiegazione della nostra esperienza; si pone semplicemente oltre o a fianco, in una dimensione diversa e soprattutto non comunicante, di esperienza puramente interiore, per chi la prova. non può essere un grimaldello per far rientrare il Dio per così dire ufficiale dalla finestra, dopo averlo lasciato fuori dalla porta.

      d’accordo invece su Socrate: qui ci ritroviamo a pieno. ma questo significa anche che i più corretti interpreti di Socrate furono Antistene (probabilmente) e gli scettici, che la tradizione ufficiale ha quasi completamente cancellato, e non Platone, che invece lo stravolse, facendogli dire, a quanto pare, da ultimo, esattamente il contrario di quello che affermava.

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  2. Bella digressione, molto interessante.

    In merito alla dimostrazione della “non esistenza” di Dio, credo che sia errato: come si dice, l’onere della prova spetta a chi afferma l’esistenza di qualcosa.
    Altrimenti potrei inventarmi qualsiasi cosa (il fantasma di un folletto fatato che appare nel pianeta Ganimede) e sfidare chiunque a dimostrare che quello che dico non esiste.

    Dio è un argomento complicato perché è simbolo di tantissime cose: come già detto è la Causa Prima, è l’Emblema dell’Universo, è l’intuizione degli uomini circa l’esistenza di un super papà o di una super mamma nei cieli, è la proiezione di quello che consideriamo il bene massimo, è il riassunto di tutti i comportamenti più vantaggiosi e positivi che gli uomini hanno compreso nel corso dei secoli, è la consolazione alla terribile angoscia del non-senso, è il concetto del Sé junghiano (istanza psichica superiore e non conoscibile che contiene il nostro “Io”),…
    Per ognuna di queste interpretazioni sarebbe necessaria una discussione, così da provare a stabilire l’esistenza o meno.

    Dal punto di vista spirituale, credo che possa “salvarsi” dal rasoio della nostra razionalità e del nostro grado di conoscenza del mondo, solamente la trascendenza e la mistica.
    Ho letto di recente “La nube della non conoscenza”, testo esoterico cristiano di una bellezza incredibile: se si mette un attimo da parte la mitologia e la morale cristiana, sembra di leggere un testo buddista.
    La conclusione infatti è la stessa: solo creando il Vuoto, andando al di là delle nostre categorie mentali, si può fare esperienza del “divino”, intesa come trascendenza.
    Come dici sul finale, questa è innegabile perché riguarda una nostra personale esperienza di connessione con il Tutto.
    E di quella Cosa lì non possiamo dire nulla, in quanto abbiamo raggiunto il limite più estremo della nostra mente.

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    • Bel commento, grazie.
      Sull’onere della prova, però, non siamo in un processo civile o penale, qui il punto è che non abbiamo gli strumenti per dimostrare né l’esistenza, né l’inesistenza di Dio.
      Dunque, è possibile che esista, e è possibile persino che si sia rivelato come dice la Bibbia, o come dice il Corano … o come dice il Vangelo: non abbiamo gli strumenti, sul piano della riflessione razionale, né per affermarlo, né per negarlo.
      Grazie di questi commenti, aiutano a spiegare con maggiore chiarezza il pensiero!

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      • Grazie per la risposta Antonio.
        Si è certamente possibile che esista, così come è possibile che esistano più divinità o altre entità che possono essere intuite o immaginate da noi uomini.
        E proprio per questo – a mio avviso – dovrebbe essere colui che ne parla “per la prima volta” a dimostrare la sua esistenza.

        Altrimenti potremmo fare lo stesso discorso riguardo i fantasmi, gli spiriti, le aure energetiche, etc.
        Non si può dimostrare né la loro esistenza né la loro inesistenza.
        Pertanto trovo ragionevole che sia colui che ne afferma l’esistenza a doverlo dimostrare.

        A mio avviso resta aperta solamente la porta della trascendenza, qualcosa che va oltre la ragione. Nel libro che citavo sopra, si parla infatti di “Non Conoscenza” che è ben diversa dall’ignoranza.
        Il Mistero può solo essere contemplato.

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        • scusa se intervengo, anche senza essere chiamato direttamente in causa, ma vedo il problema in un modo leggermente (solo leggermente) diverso.
          di dio, fantasmi, spiriti, aure energetiche e altre chimere si può ben dimostrare l’inesistenza nel mondo dell’esperienza naturale; questo non basta certamente ad escludere altre forme di esistenza, al di fuori del mondo esperienziale sperimentabile, in quella che tu e Carbonelli chiamate la trascendenza, parola che indica una realtà che sta aldilà, trans, in qualche modo ben separata e non comunicante.
          si prenda atto che qualcuno la sente, alcuni la vivono addirittura, e molti no, a quanto risulta; e dunque è soltanto soggettiva, non dovrebbe essere oggetto di un discorso universale condiviso, come vorrebbe essere quello filosofico.
          non si nega la trascendenza, ma è una di quelle cose di cui non si può parlare e dunque se ne deve tacere, come diceva Wittgenstein.

          ma su questo, superata la sottile distinzione iniziale, vedo che concordiamo ampiamente.

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