due diversi Eleazar, entrambi tra i seguaci di Jeshuu? – L’Annuncio del Nuovo Regno: Introduzione. 18 – 355

l’analisi dell’opera storica di Giuseppe Flavio, ci ha fornito, nel post precedente, qualche informazione che lui stesso finisce col darci senza volerlo, o perché non coglie dei nessi evidenti fra alcuni fatti o perché non vuole che li colga il lettore.

ha indicato l’emergere, tra i movimenti rivoluzionari, di quei decenni convulsi della storia ebraica, di una nuova tendenza, di carattere profetico più che militante, il cui protagonista più importante fu il profeta egiziano – che io ritengo sia il modo spregiativo col quale indica Jeshuu.

ma è sorprendente come questa descrizione sia particolarmente adatta ad indicare proprio il carattere della sua predicazione, per come ci viene descritta dai suoi seguaci: il profeta egiziano, cioè Jeshuu, un visionario, li convince dell’imminenza di un intervento miracoloso divino che farà crollare le mura di Gerusalemme, così come Jahvè fece crollare quelle di Gerico davanti al successore di Mosè, il suo omonimo Giosuè, come suona la trascrizione del nome ebraico.

nella sua fervente adesione all’ebraismo, Jeshuu, cioè il profeta egiziano, non dubita un momento della storicità di questo racconto fondativo della conquista della Palestina ad opera degli ebrei, secondo la storia largamente immaginaria dei loro libri sacri, e non vede motivo per il quale l’evento non possa ripetersi.

del resto è convinto di essere stato inviato da Jahvé proprio per realizzare questo disegno, come ultimo erede primogenito di Davide secondo una linea dinastica che gli è stata ricostruita addosso; e toccherà a lui a quel punto la ricostruzione in tre giorni del tempio profanato dai romani e dai sacerdoti corrotti loro reggicoda, che seguirà il destino delle mura.

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come si vede, lo spirito di questa predicazione è profetico, ma non propriamente pacifico, anche se il profeta egiziano invitava i suoi seguaci ad astenersi da azioni direttamente violente, ed insegnava anzi l’estrema scrupolosa adesione alla legge dell’amore per i propri fratelli come garanzia dell’intervento risanatore di Dio.

ma l’azione drastica e veloce delle truppe romane fa di lui un disperso e altrettanto disperde i suoi pochi seguaci che sopravvivono alla strage dei 40mila che si erano raccolti con lui, sul Monte degli Ulivi, in attesa del prodigio, secondo Giuseppe Flavio.

e dunque quel che resta del movimento si radicalizza; ne segue immediatamente una recrudescenza dell’attività terroristica: gli zeloti, zelanti osservanti della legge mosaica, come dice il loro stesso nome, diventano sicari, cioè portatori del pugnale nascosto chiamato sica, col quale aggrediscono e liquidano gli esponenti della classe dirigente più compromessi con i romani.

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questa è la linea generale dell’evoluzione del movimento anti-romano che Giuseppe Flavio documenta, ma senza stabilire questa connessione; semplicemente la descrive in due punti diversi delle sue opere, ma la consequenzialità dei fatti è evidente.

e dunque possiamo pensare che i seguaci di Jeshuu a questo punto siano stati costretti ad un ripensamento della sua figura: notevole è però che non se ne disfecero, neppure dopo un fallimento tanto clamoroso, e resterà da capire bene perché.

quindi diventa logico pensare che essi fossero ancora attivi anche nella grande ribellione antiromana che iniziò meno di 15 anni dopo la scomparsa nel nulla del profeta egiziano.

Giuseppe Flavio, di nuovo, non ha nessun interesse a mettere in evidenza questi aspetti: non sta scrivendo la storia degli zeloti, ma una storia contro gli zeloti, e cerca di sminuire la portata delle loro azioni politiche, accomunandole sotto il peso di un globale giudizio negativo per la violenza del loro operato e ancora di più per l’esito catastrofico delle loro azioni, che hanno portato alla distruzione stessa del popolo ebraico, almeno dal suo punto di vista.

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di nessuno dei protagonisti ebrei della grande guerra giudaica Giuseppe Flavio ci dice che era un seguace del profeta egiziano: di lui vuole che i suoi lettori pensino che era sparito nel nulla, dopo una vergognosa fuga e una scomparsa misteriosa.

però non rinuncia a mettere in evidenza il ruolo degli zeloti, e noi possiamo pensare che i seguaci di Jeshuu fossero tornati a fare pienamente parte di questo movimento, almeno in parte.

perché qualcun altro di loro aveva invece preferito mantenere vivo l’aspetto profetico e i nuovi valori etici che Jeshuu aveva predicato; e a farlo fu principalmente quel Giuda che era il suo fratello gemello (toma, in ebraico, poi diventato Tommaso, come particolare nome proprio, per cancellare il significato della parola).

ma proprio nell’anno 52 d.C., secondo la tradizione, Tommaso si era messo in salvo in India, per sfuggire alla caccia evidente che gli stavano dando i romani; altra coincidenza cronologica quasi incredibile, nella sua chiarezza.

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di alcuni dei leader della rivolta anti-romana Giuseppe Flavio dice che si scontrarono con gli zeloti, come abbiamo visto, e sono principalmente due: Giovanni di Giscala e Simone di Giora.

altri due li collega invece chiaramente al movimento degli zeloti, secondo lui fondato da Giuda il Galileo, dicendo che erano imparentati con lui:

uno è Menahem, che lui definisce figlio di questo Giuda, ma per motivi cronologici dobbiamo pensare che i copisti abbiano confuso la parola greca per indicare il figlio, yòs, con quella per indicare il nipote, yiòs.

ma allora figlio di chi? di un figlio di Giuda il Galileo, certamente, ma di chi?

un altro è quell’Eleazar figlio di Jairo (nome variamente trascritto) che è pure definito come discendente di Giuda, e non può quindi essere che figlio di una sua figlia; ed è l’ultimo resistente contro i romani, dalla rocca di Masada, dove alla fine si suicida con tutti i suoi ultimi 960 seguaci.

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ma accanto a questi due, che chiaramente sono zeloti, se non altro per motivi di continuità familiare, ecco comparire un altro Eleazar o Lazzaro, altro protagonista dell’azione rivoluzionaria, che è però estraneo alla famiglia di Giuda, il fondatore del movimento degli zeloti; anzi è addirittura figlio del sommo sacerdote in carica Anania (o Anna, secondo una diversa trascrizione del nome, quella usata dai vangeli).

va pure detto che gli Eleazar sono diversi nell’opera di Giuseppe Flavio, perché il nome era molto diffuse allora, come del resto lo stesso nome di Joshua (in ebraico), e sono diversi anche i portatori di questo nome.

possiamo pensare che anche questo Eleazar si richiamasse al movimento zelota e dunque anche al profeta egiziano, almeno anche solo indirettamente?

allo stato non abbiamo nessun motivo per poterlo affermare, ma neppure per escluderlo.

se identifichiamo gli zeloti con i nazionalisti più esaltati e con gli interpreti in senso teocratico dell’ebraismo, la risposta ci porta a propendere più per il sì, ma occorre ammettere che si tratta di suggestioni vaghe.

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quello che non è suggestione, ma storia di incredibile tragicità è invece quanto Giuseppe Flavio racconta del rapporto tra questo secondo Eleazar e Menahem, il discendente di Giuda il Galileo.

è Menahem che aggredisce e uccide il sommo sacerdote Anania, cioè il padre di quell’Eleazar che non appartiene alla sua famiglia.

ed è questo Eleazar che, per reazione, a questo punto aggredisce con i suoi seguaci ed uccide quel Menahem che rivendicava il trono di Gerusalemme in quanto discendente di Giuda il Galileo.

se anche l’Eleazar figlio del sommo sacerdote Anania era almeno vicino agli zeloti, la storia di questi sembra concludersi con questo orrendo finale fratricida.

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ma alla fine della guerra ne sopravvive ancora uno, come già detto: l’Eleazar figlio di Giairo, pure discendente di Giuda il Galileo.

ma è giunto il momento di leggere come Giuseppe Flavio descrive la sua fine e di riflettere sul lungo discorso che lo storico gli attribuisce per indurre al suicidio gli ultimi resistenti nella fortezza di Masada.

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La Guerra Giudaica Libro VII

320 – 8, 6. Ma né Eleazar meditava di fuggire, né avrebbe permesso di farlo ad alcuno dei suoi. 321 Vedendo il muro rovinato dal fuoco, non scorgendo più nessun’altra possibilità di scampo o di eroica resistenza, immaginandosi quello che i romani, una volta vincitori, avrebbero fatto a loro, ai figli e alle mogli, deliberò la morte per tutti. 322 Persuaso che in simili circostanze era questa la risoluzione migliore, raccolse i più animosi fra i suoi uomini e prese a spronarli con tali parole:
323 “Da gran tempo noi avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del Dio, perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini; ed ecco che ora è arrivato il momento di confermare con i fatti quei propositi. 324 In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna, noi che prima non ci siamo piegati nemmeno a una servitù che non comportava pericoli, e che ora assieme alla schiavitù ci attireremo i più terribili castighi se cadremo vivi nelle mani dei romani. Siamo stati i primi, infatti, a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. 325 Credo poi che sia una grazia concessaci dal Dio questa di poter morire con onore e in libertà, mentre ciò non fu possibile ad altri, che furono vinti inaspettatamente. 326 Per noi invece è certo che domani cadremo in mano al nemico, e possiamo liberamente scegliere di fare una morte onorata insieme con le persone che più ci sono care. Né possono impedirlo i nemici, che pur vorrebbero a qualunque costo prenderci vivi, né possiamo noi ormai superarli in battaglia. 327 Forse fin dal principio, quando noi decidemmo di batterci per la libertà, e ci toccò sia di infliggerci a vicenda ogni sorta di colpi sia di subirne ancor più gravi dai nemici, bisognava subito indovinare l’intenzione del Dio e capire che la stirpe dei giudei, a lui un tempo così cara, era stata ora condannata alla distruzione. 328 Che se egli ci fosse rimasto propizio, oppure non ci avesse preso tanto a malvolere, non sarebbe rimasto indifferente allo sterminio di tanti uomini né avrebbe abbandonato la sua città santa alle fiamme e alle devastazioni dei nemici. 329 Ci aspettavamo forse che solamente noi fra l’intero popolo dei giudei saremmo sopravvissuti conservando la libertà, come se non avessimo arrecato offese al Dio e non ci fossimo macchiati di alcuna iniquità, mentre ne siamo stati perfino maestri agli altri? 330 E allora, guardate come egli ci dà la dimostrazione che vane erano le nostre aspettative, infliggendoci nella sventura colpi più gravi di quelli che potevamo attenderci; 331 non solo infatti questa fortezza per sua natura inespugnabile non è valsa a salvarci, ma, dato che avevamo abbondanza di viveri e gran copia di armi e di ogni altro rifornimento, è stata evidentemente opera del Dio se ci troviamo ridotti a disperare della salvezza. 332 Le fiamme che si protendevano contro i nemici non si sono rivoltate da sole contro il muro costruito da noi, ma ciò è avvenuto a causa dello sdegno divino per le molte scelleratezze che nel nostro cieco furore abbiamo osato commettere a danno dei nostri connazionali. 333 Di tali colpe conviene che paghiamo il fio non ai nostri nemici più accaniti, i romani, ma per nostra stessa mano al Dio, e così il nostro castigo sarà anche più lieve di quello che c’infliggerebbero i vincitori. 334 Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù, e dopo la loro fine scambiamoci un generoso servigio preservando la libertà per farne la nostra veste sepolcrale. 335 Ma prima distruggiamo col fuoco e i nostri averi e la fortezza; resteranno male i romani, lo so bene, quando non potranno impadronirsi delle nostre persone e vedranno sfumare il bottino. 336 Risparmiamo soltanto i viveri, che dopo la nostra morte resteranno a testimoniare che non per fame siamo caduti, ma per aver preferito la morte alla schiavitù, fedeli alla scelta che abbiamo fatta fin dal principio”.

337 – 8, 7. Così parlò Eleazar, ma le sue parole non suscitarono identiche reazioni nell’animo dei presenti; alcuni erano ansiosi di tradurre in atto la sua esortazione e per poco non gongolavano di gioia al pensiero di fare una fine così gloriosa, 338 mentre i più pusillanimi fra loro provavano compassione per le mogli e i figli, e certamente anche per la loro prossima fine, e scambiandosi occhiate davano a vedere con le loro lacrime di non essere propensi al sacrificio. 339 Eleazar, vedendo costoro avviliti e in preda allo scoramento di fronte a una decisione così grave, temette che con i loro gemiti e le loro lacrime disanimassero anche quelli che avevano accolto con fermezza le sue parole. 340 Allora non rinunziò ai suoi incitamenti, ma riscaldandosi e lasciandosi trasportare da un gran fervore elevò il tono del suo discorso parlando dell’immortalità dell’anima e, 341 fissando dritto negli occhi con duro cipiglio quelli che piangevano, così disse:

“Che grandissimo errore, il mio, quando ho creduto che avrei partecipato alla lotta per la libertà avendo a fianco degli uomini valorosi, decisi a vivere con onore o altrimenti a morire. 342 Ma per valore e coraggio non eravate per niente diversi dalla gente comune voi, che avete paura anche di una morte destinata a liberarvi di molti affanni, mentre dinanzi a questa non dovreste né avere esitazioni né attendere consigli. 343 Da gran tempo, infatti, e sin da quando la nostra mente ha cominciato ad aprirsi, la disciplina tradizionale e i precetti divini ci hanno sempre insegnato – e i nostri avi ce l’hanno confermato con il loro agire e con il loro pensare – che per gli uomini è una disgrazia vivere, non morire. 344 La morte infatti, donando la libertà alle anime, fa sì che esse possano raggiungere quel luogo di purezza che è la loro sede propria, dove andranno esenti da ogni calamità, mentre finché sono prigioniere in un corpo mortale, schiacciate sotto il peso dei suoi malanni, allora sì che esse son morte, se vogliamo dire il vero; infatti il divino mal s’adatta a coesistere col mortale. 345 Senza dubbio, grandi cose può realizzare l’anima anche quando è prigioniera di un corpo; essa infatti fa di questo il suo organo di percezione e invisibilmente lo muove e lo guida a compiere opere che vanno al di là della sua natura mortale; 346 ma una volta che, affrancata dal peso che la trascina in basso verso la terra e ve la tiene avvinta, essa raggiunge la sua sede naturale, allora partecipa di un potere straordinario e di una forza che non patisce alcuna limitazione, continuando ad essere invisibile agli occhi umani come lo stesso Dio. 347 Essa infatti non è visibile nemmeno quando abita in un corpo: invisibilmente vi entra e invisibilmente se ne allontana, e mentre per sé conserva la sua identica natura incorruttibile, provoca la trasformazione del corpo. 348 Tutto ciò che è toccato dall’anima vive e fiorisce, tutto ciò da cui essa si diparte avvizzisce e muore: così grande è la sua carica d’immortalità! 349 A prova evidentissima di ciò che vi dico, prendete il sonno, in cui le anime, non essendo in balia del corpo, godono liberamente di un dolcissimo stato di quiete e, comunicando col Dio per l’affinità della loro natura, si aggirano dappertutto e predicono molti eventi futuri. 350 Perché dovrebbero temere la morte coloro che amano il riposo che si fruisce durante il sonno? E come non sarebbe da pazzi agognare, mentre si è vivi, alla libertà e poi negarsi il godimento di quella eterna? 351 Noi, che riceviamo nelle nostre case un’educazione informata a questi principi, dovremmo dare esempio agli altri con l’esser sempre pronti a morire; comunque, se volessimo ricevere una conferma attingendola dagli stranieri, guardiamo agli indiani che seguono i dettami della filosofia. 352 Costoro infatti, ed è gente di prim’ordine, sopportano a malincuore il periodo della vita come un debito da pagare alla natura, 353 e non vedono l’ora di liberare le anime dai corpi; senza che alcun male li affligga o li costringa ad andarsene, presi dal desiderio della vita immortale, preannunziano agli altri di essere prossimi alla dipartita, e non c’è alcuno che cerchi di impedirglielo, ma tutti si felicitano con loro e consegnano ad essi delle lettere per i propri cari: 354 così salda e sincera è la loro fede che le anime comunicano l’una con l’altra. 355 Dopo aver raccolto tutti i messaggi, essi salgono su un rogo, perché l’anima si separi dal corpo nel massimo stato di purezza, e muoiono circondati da un coro di elogi; 356 infatti le persone maggiormente care usano accompagnarli alla morte assai più che presso altri popoli non si usa di accompagnare i cittadini che partono per un lungo viaggio, e mentre sono afflitte per sé stesse considerano beati quelli, che già raggiungono la condizione dell’immortalità. 357 E allora, non proviamo vergogna di essere inferiori agli indiani nei pensieri di fronte alla morte e di offendere turpemente con la nostra vigliaccheria le patrie leggi, che destano l’invidia di tutto il mondo? 358 Ma se anche dapprincipio con precetti opposti ci avessero insegnato che per gli uomini il sommo bene è la vita, e una calamità la morte, le presenti circostanze ci spingono a sopportarla con coraggio, dato che dobbiamo morire per volere di Dio e ineluttabilmente. 359 Da gran tempo, a ciò che pare, contro tutta quanta la stirpe dei giudei il Dio ha pronunciato questa sentenza, che noi fossimo costretti ad abbandonare la vita quando non avessimo più a usarne rettamente. 360 Non dovete infatti dar la colpa a voi stessi, o attribuire il merito ai romani, se la guerra contro di loro ci ha portati tutti alla catastrofe; ciò non accadde per la loro forza, ma per una forza ben più alta che a loro ha concesso di far la figura dei vincitori. 361 Quali armi romane sterminarono i giudei abitanti a Cesarea? 362 Costoro in verità non avevano nemmeno l’intenzione di partecipare alla rivolta, ma mentre erano intenti a festeggiare il sabato si videro piombare addosso il popolo dei Cesariensi e, sebbene non opponessero resistenza, vennero sterminati assieme alle mogli e ai figli senza alcun riguardo per i romani, che consideravano nemici soltanto noi che eravamo insorti. 363 Qualcuno dirà che i Cesariensi erano sempre in contrasto con i giudei residenti nella loro città, e che colsero l’occasione per dar sfogo al vecchio rancore. Che dire allora dei giudei di Scitopoli? 364 Questi ebbero l’ardire di unirsi ai greci nel far guerra a noi, e non vollero unirsi a noi, loro connazionali, nella resistenza ai romani. 365 Ebbene, fu certamente un gran profitto quello che ricavarono dalla loro simpatia e dalla loro lealtà verso di loro! Da costoro infatti, a ricompensa dell’alleanza, vennero spietatamente trucidati con tutte le loro famiglie, 366 e la sorte che c’impedirono d’infliggere a quelli la subirono poi essi stessi, quasi avessero avuto l’intenzione di scatenare l’eccidio. Sarebbe ora troppo lungo specificare ad uno ad uno i casi come questi; 367 infatti voi sapete che fra le città della Siria non ve ne fu una che non fece strage dei giudei residenti, sebbene costoro fossero più avversi a noi che ai romani. 368 Così il popolo di Damasco, pur non riuscendo a inventare un pretesto plausibile, riempì la sua città di nefanda strage sterminando 18mila giudei con le mogli e i figli. 369 Il numero, poi, di coloro che in Egitto perirono fra i supplizi superò forse, a quanto si dice, i 60mila. Questi può darsi che abbiano fatto una tal fine perché, trovandosi in terra straniera, non ebbero modo di resistere ai nemici; ma a tutti coloro che sul patrio suolo intrapresero la guerra contro i romani che cosa mancava di ciò che può infondere la speranza di sicura vittoria? 370 Armi, mura, fortezze inespugnabili, e una volontà incrollabile di fronte ai pericoli per la libertà, ispirarono in ciascuno il coraggio della ribellione. 371 Ma tutte queste cose bastarono solo per poco, e dopo averci illusi con le speranze si rivelarono il principio di più grandi mali. Infatti tutte furono espugnate, tutte caddero in mano dei nemici, come se fossero state apprestate per rendere più gloriosa la loro vittoria, non per salvare chi le aveva predisposte. 372 Felici sono da ritenere i caduti in combattimento, morti per difendere la libertà, non per tradirla; ma chi potrebbe non commiserare la moltitudine dei prigionieri fatta dai romani? Chi non s’affretterebbe a morire prima di provare le loro sofferenze? 373 Alcuni di loro sono periti straziati dagli strumenti di tortura e fra gli spasimi del fuoco o delle battiture; altri, semidivorati dalle belve, furono conservati vivi per esser ancora una volta gettati in pasto a quelle, facendo ridere e divertire i nemici. 374 Ma più infelici fra tutti sono da considerare quelli che ancora vivono, che più volte hanno implorato la morte senza riceverla. 375 Dov’è ora la grande città, la madrepatria di tutto il popolo dei giudei, difesa da tante linee di fortificazione, circondata da tanti baluardi e immense torri, quella che a stento riusciva a contenere gli apprestamenti difensivi di cui era dotata e possedeva un numero così sterminato di uomini pronti a combattere per lei? 376 Che fine ha fatto quella città che credevamo abitata dal Dio? Estirpata fin dalle fondamenta è stata strappata via, e a ricordo ne rimane solo la moltitudine degli uccisi che ancora restano fra le sue macerie. 377 Presso le ceneri del santuario se ne stanno dei miseri vecchi e poche donne riservate dal nemico al più infame oltraggio. 378 Chi di noi, pensando a tali miserie, avrà ancora il coraggio di guardare la luce del sole, pur potendo vivere senza pericoli? Chi sarà tanto nemico della patria, tanto vile e attaccato alla vita da non provare il tedio di essere tuttora vivo? 379 Magari fossimo tutti morti prima di vedere quella santa città crollare sotto i colpi dei nemici, e il sacro tempio empiamente distrutto fin dalle fondamenta. 380 Ci fu di sprone la non ignobile speranza di poter forse un giorno far le sue vendette sui nemici, ma poiché tale speranza è ora svanita, e ci ha lasciati soli nell’ora suprema, non indugiamo a fare una morte gloriosa, muoviamoci a pietà per noi stessi, per le mogli e per i figli, finché possiamo ancora trovare misericordia da parte nostra. 381 Siamo nati per morire, noi e quelli che abbiamo generato, e a questo destino nemmeno i più fortunati possono sottrarsi; invece l’essere sopraffatti e gettati in catene, 382 e il vedere le mogli trascinate alla vergogna assieme ai figli, non sono mali inevitabili perché imposti all’uomo dalla natura, ma sono mali che per la sua viltà deve sopportare chi potrebbe evitarli con la morte e non vuole. 383 Fieri del nostro coraggio noi demmo inizio alla ribellione ai romani, e ora che siamo alla fine abbiamo respinto le loro profferte di perdono. 384 Chi non immagina la loro ferocia se ci prenderanno vivi? Sventurati i giovani, che per la robustezza del corpo resisteranno a molti supplizi, sventurati gli anziani, la cui età non potrà sopportare tali tormenti! 385 Chi vorrà vedere la propria moglie trascinata a forza e sentire la voce del proprio figlio che invoca il padre, mentre le sue mani sono strette in catene? 386 Ma finché queste sono libere e hanno una spada da impugnare, ci rendano un generoso favore; moriamo quando ancora i nemici non ci hanno ridotti in schiavitù, e da esseri liberi diamo un addio alla vita con le mogli e i figli. 387 Questo c’impongono le leggi, questo ci chiedono supplichevoli le mogli e i figli; tale destino ci ha riservato il Dio, mentre i romani vorrebbero tutto il contrario, preoccupati che qualcuno di noi abbia a morire prima della tortura. 388 E allora, invece dell’esultanza che speravano di provare impadronendosi di noi, affrettiamoci a lasciar loro lo stupore per la nostra fine e l’ammirazione per il nostro coraggio”.
389 – 9, 1. Eleazar avrebbe voluto proseguire con le sue parole d’incitamento, ma tutti lo interruppero impazienti di metterle in atto sotto la spinta d’un’ansia incontenibile; come invasati, se ne partirono cercando l’uno di precedere l’altro e reputando che si dava prova di coraggio e di saggezza a non farsi vedere tra gli ultimi: tanta era la smania che li aveva presi di uccidere le mogli, i figli e sé stessi. 390 Né, come ci si sarebbe potuto attendere, si affievolì il loro ardore nel passare all’azione, ma conservarono saldo il proponimento maturato ascoltando quelle parole e, sebbene tutti serbassero vivi i loro affetti domestici, aveva in loro il sopravvento la ragione, da cui sentivano di essere stati guidati a decidere per il meglio dei loro cari. 391 Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, 392 al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. 393 Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali! 394 Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; 395 quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio.
396 Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. 397 Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari.
398 Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; 399 invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: 400 960 furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, 401 e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanthico.
402 – 9, 2. I romani, che s’aspettavano di dover ancora combattere, verso l’alba si approntarono e, gettate delle passerelle per poter avanzare dai terrapieni, si lanciarono all’attacco. 403 Non vedendo alcun nemico, ma dovunque una paurosa solitudine e poi dentro fiamme e silenzio, non riuscivano a capire che cosa fosse accaduto; alla fine levarono un grido, come quando si dà il segnale di tirar d’arco, per vedere se si faceva vivo qualcuno. 404 Il grido fu udito dalle due donne che, risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l’accaduto, e specialmente una riferì con precisione tutti i particolari sia del discorso sia dell’azione. 405 Ma quelli non riuscivano a prestarle fede, increduli dinanzi a tanta forza d’animo; si adoperarono per domare l’incendio e, apertasi una via tra le fiamme, entrarono nella reggia. 406 Quando furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto.

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